psicopedagogie.it
Istituto di Formazione in pedagogia clinica riconosciuto UNIPED (Unione Italiana Pedagogisti). Censita CNEL. Aderente CoLAP

 

“ABITARE LA SOGLIA: UN PERCORSO DI PEDAGOGIA FILOSOFICA NELLA SCUOLA PRIMARIA”

Di: Francesca Zannoni - Milano
(Relazione al II Convegno nazionale UNIPED – Lanciano - Novembre 2013)

Diceva Foucault (“Dits et écrits”) che si può scrivere un libro o presentare un discorso essenzialmente in due modi:
- come VERITA’ oppure
- come ESPERIENZA

Come VERITA’ l’autore sa di possedere, o, sarebbe forse più corretto dire, “pensa di possedere” QUALCOSA DA DIRE.
Ovvero una sorta di Verità, seppur personale, che intende comunicare ai propri lettori o ai propri ascoltatori.

All’interno dell’ESPERIENZA, invece, chi scrive, o chi si accinge a presentare un discorso, segue il filo del proprio pensiero senza avere verità specifiche da comunicare.
Nella sua esposizione, ma prima ancora, nel suo modo di argomentare, non possiederà in anticipo le conclusioni, ma si lascerà orientare, trasformare e modificare da quella particolare relazione che si andrà via via strutturando tra la verità, insita nell’esperienza, e l’esperienza stessa.
All’interno dei processi di pensiero verrà così ad attivarsi una sorta di trasformazione, ontologica prima ancora che cognitiva, conosciuta come CONDIZIONAMENTO RECIPROCO, dove la dimensione e l’accadere relazionale modificano non solo gli attori della comunicazione, destrutturandone e contemporaneamente ristrutturandone il pensiero, ma agiscono sul contesto, ovvero sul terreno stesso in cui si gioca la relazione, mutandolo.
Nell’incontro relazionale autentico, laddove la Verità lascia il posto all’Esperienza, A e B cambieranno loro stessi in un gioco che altro non è se non il ripetere e il restare attivamente all’interno dell’incontro relazionale.
In altre parole potremmo affermare che l’azione del Condizionamento Reciproco si esplica e si esprime nel permanere della relazione.

frcce

Come pedagogisti, formatori, educatori ed insegnanti, non possiamo prescindere da questa sorta di dinamicità e, ponendoci all’interno dell’accadere dell’altro, in tutte le sue forme e dimensioni, dobbiamo cogliere il rischio che ogni incontro racchiude: lasciasi modificare nel modificare l’altro.
Nella maggioranza dei casi invece, sia nel ruolo di A che nella veste di B, sia come autori che come lettori, tendiamo a fermarci alla dimensione della Verità, ovvero a stabilire relazioni in cui la Verità è più importante dell’Esperienza.
“ABITARE LA SOGLIA” per usare un’espressione cara alla fenomenologia, espone al pericolo, mentre posizionarsi nell’ “aldiqua” o nell’”aldilà”, in qualche modo protegge.
La soglia espone al dubbio e all’ignoto dell’incontro.
Le mura contengono e strutturano certezze.
E questa dinamica, totalmente umana perché rassicura circa la propria normalità e preserva dalla percezione della propria follia, si accentua nei contesti di apprendimento.
Il dicente vuole imparare, incamerare nozioni e portarsi a casa un bel “bottino di sapere”. Meglio ancora se quel bottino è così ben confezionato da non richiedere ulteriori interventi di “messa in posa”.
E a sua volta il docente, offrendo la Verità del suo sapere, fa dono di certezze e sicurezze.
Tutto questo in un magnifico e altamente funzionale gioco delle parti.
Scrive Luce Irigaray nell’introduzione del suo ultimo saggio (“All’inizio, Lei era”):

“Il maestro comincia generalmente il suo insegnamento con le parole: IO DICO.
Ossia Egli pensa che la verità sia garantita dal proprio discorso e che il discepolo debba ripetere lo stesso discorso affermando: Egli dice o Egli ha detto.
La Verità è dunque trasmessa dal maestro al discepolo come da un padre a un figlio.
La Verità è trasmessa tra uomini secondo un ordine genealogico e gerarchico.”

Ma le soglie, che ci conducono per loro stessa natura, sempre in una dimensione che è ALTROVE, ci avvicinano inevitabilmente all’Altro.
Quando si oltrepassa la soglia bisogna sapere attendere e ascoltare.
Come quando si ama.
Scrive Rilke, il poeta:

“Soglia: oh pensa che è per due che si amano
logorare un po’ la propria soglia di casa
già alquanto consunta
anche loro, dopo dei tanti prima
e prima di quelli dopo…. Leggermente”
(Reiner Maria Rilke – IX Elegia – “Elegie Duinesi”)

Ma qui le parole di Verità hanno lasciato il posto alle parole di Esperienza.
E’ l’amore, nel senso più ampio e più assoluto del termine, che ci permette di accedere ad un livello più radicale, sia rispetto alla riflessione, che rispetto alla percezione.
E qui, in un comune territorio di soglia, si realizza l’incontro con l’Altro, non più inteso come Corpo-Diverso-da-Me, il NON-IO, ma come VIVENTE che, abbandonando le vesti del Soggetto fondato cartesianamente, di lascia coinvolgere nella reciprocità della relazione.

Chi si occupa di Clinica abita costantemente la soglia.
Perché, se è vero, che è SULLA soglia che si realizza, nel divenire la relazione con l’atro, è altrettanto vero che è ALLA soglia che appartiene la modificabilità insita nella relazione.
E questa convinzione accompagna e sorregge, ogni giorno, la nostra attività professionale, sia che la si eserciti all’interno di uno studio, sia che la si esplichi in un’aula o la si agisca in un contesto informale.
Il medico francese Itard, accettando di abitarre la soglia con Victor, il ragazzo selvaggio di Aveyron, non solo dimostrò la possibilità di una modificazione attiva, attraverso un intervento educativo intensivo, ma avviò un mutamento radicale nel modo di pensare della scienza medica del tempo.
Modificando i paradigmi scientifici, cioè quei modelli utilizzati per la formulazione dei problemi e per l’impostazione delle loro soluzioni, innescò quello che Thomas Kuhn avrebbe definito un “mutamento delle idee della scienza”, ovvero una vera e propria rivoluzione nel modo di pensare e di fare scienza.
Se Husserl ci ha insegnato che le manifestazioni della coscienza non sono mai vuote, in quanto è tramite la coscienza che si attribuiscono i significati, Lévinas, con la scuola fenomenologica francese, ne ha ampliato il campo d’azione, fino ad arrivare ad affermare che il Soggetto non può mai essere ricondotto solo a se stesso.
Quindi non è la nostra particolare Soggettività a dare un senso al mondo, ma sono gli Altri che, accadendo filosoficamente nel nostro percepire fenomenico, contribuiscono a costituire il nostro io.
Non siamo più in presenza del primato del COGITO ERGO SUM, bensì del COGITOR ERGO SUM.
“ Esisto perché sono pensato”.
Si tratta di un’esperienza universale.
Un incontro inaspettato, un nuovo amore,un dolore improvviso, un’emozione…. sono esperienze che, non presentandosi secondo una forma oggettiva, ci costringono a pensare alla Soggettività in una forma nuova e alternativa.
L’Io non è più un padrone assoluto, non si configura più come un Principio e Fondamento Assoluto di Se Stesso, ma come diceva Marion, si pone come un “affittuario della soggettività”, esposto costantemente a eventi che lo modificano e lo trasformano nel profondo.
Varcando la soglia, l’Io si mette in cammino e, percorrendo liberamente lo spazio in cui viene “ad essere gettato”, si trova meravigliosamente esposto a tutti quegli accadimenti sincronici descritti da Jungh, lasciando che siano essi a forgiare la sua rinnovata soggettività.
Allo stesso modo il senso del fare clinica, che se non può più essere ridotto ad un’applicazione empirica di tecniche e strumenti più o meno efficaci, non può prescindere da una riflessione, di matrice filosofica, circa il proprio essere e il fare pedagogia professionale.

In un lavoro del 1913, intitolato “Inizio del trattamento”, Sigmund Freud paragonò le regole dell’intervento psicoanalitico alle regole del gioco degli scacchi.
In pratica, come per vincere a scacchi non esistono regole codificate, ma solo indicazioni pratiche circa le modalità di apertura e chiusura, allo stesso modo, per la terapia psicoanalitica, si limitò a definire, logicamente, solo le fasi di apertura e chiusura dell’analisi.
Per lo svolgimento, invece, al posto delle regole, Freud offrì dei consigli che, badate bene, suggerì di non accettare incondizionatamente!
Del resto, scrive Foucault:
“Che cos’è la filosofia se non un modo di riflettere, non tanto su ciò che è Vero e su ciò che è Falso, bensì sulla nostra relazione con la Verità ?”.
(M. Foucault – Dits et écrits-)

Da queste premesse, è nata l’idea di avviare, all’interno di una scuola primaria di Milano, per l’anno scolastico 2012-13, un progetto che prevedeva di fare PRATICA PEDAGOGICO-CLINICA spostando cioè, attraverso la mediazione filosofica, l’asse dell’azione da un’EDUCAZIONE AL PENSIERO al PENSARE IN SE’, allo scopo di cercare, attraverso il dialogo filosofico e l’incontro con l’altro, nuove regole del gioco.
Nuove regole che accolgono concetti non pienamente oggettivabili, concetti come “paradosso”, “attesa”, “soglia”, riaffermandoli, anche ontologicamente, non più solo come immagini poetiche del tutto estranee o inutili alla quotidianità.
Azioni di Esperienza più che di Verità.
Esperienza che in sé non impone una Verità o una Legge.
Non codifica quello che deve essere esperito, ma permette di mettere in dubbio la normalità attivando il “processo critico del pensiero su se stesso che, invece di legittimare ciò che già si conosce, cerca di sapere in che modo e fino a dove sarebbe possibile pensare in modo divergente” (M. Foucault- “Storia della sessualità”).

Ecco quindi l’affermazione delle BUONE PRASSI PEDAGOGICHE, dove un’educazione al concetto di SOGLIA possa offrire, a partire dai curricula scolastici, ai bambini e ai ragazzi, un utile strumento, anche di natura concettuale, per comprendere meglio LE SOCIETA’ e i LORO PARADOSSI.

• IL PROGETTO

IL CONTESTO
Milano. Quartiere Buonarroti.
Uno dei quartieri residenziali di Milano.
Il centro è relativamente vicino, i viali sono larghi e alberati.
Ci sono palazzi d’epoca finemente ristrutturati con bei giardini e lussuose portinerie.
In zona c’è la storica casa di riposo per musicisti “ Giuseppe Verdi”, un monumento per la città. Unica nel suo genere.
Qui si trova la scuola.
Un istituto privato, dalla lunga tradizione educativa, che accoglie e forma bambine e bambini a partire dalla scuola dell’infanzia fino al completamento della scuola secondaria di I° grado.

LA RICHIESTA: OVVERO L’OBIETTIVO DEL LAVORO
La richiesta di un intervento specialistico, a marcata valenza educativa, è partito dalla Dirigente scolastica e dall’insegnante prevalente della classe, ed è stato determinato dalla presenza di una classe complessa e di difficile gestione.
Ci troviamo in una V della scuola primaria contraddistinta da una conflittualità interna talmente elevata da determinare cadute negative anche in termini di apprendimento.
I bambini non riescono a riconoscersi come appartenenti ad un gruppo e non sono n grado di instaurare tra loro relazioni realmente comunicative. Si sentono costantemente in competizione per cui non sono capaci di gestire momenti di condivisione e situazioni cooperative.
Ci sono problemi disciplinari ed è difficile per molti di loro mantenere l’attenzione sul compito.
Di fronte alle frustrazioni reagiscono adottando reazioni di evitamento o di negazione, con numerosi acting-out sia etero che auto diretti; i conflitti sono gestiti con l’esclusione o l’espulsione, a cui seguono reazioni ritorsive affiamnacate da una costante aggressività più o meno latente.
Ci troviamo in presenza di bambini estremamente fragili e disorientati, che paiono incapaci, nonostante la loro esuberante prepotenza, di accedere, in termini di cognitività, ad una dimensione astratta e simbolica del proprio pensare e del proprio agire.
I prodotti di marca, la merce costosa, i vestiti alla moda, diventano perciò gli oggetti transazionali privilegiati e i simboli valoriali in cui riconoscersi, per sancire, come già sosteneva Roland Barthes, la propria appartenenza al gruppo ed adottare una sorta di “identità per procura”.
La sfida era alta.
La posta in gioco anche.
Si rendeva cioè necessario creare uno spazio di MEDIAZIONE, in cui fosse possibile DARE ASCOLTO ALLE PAROLE.
Si imponeva cioè la necessità di uno SPAZIO DI PENSIERO, inteso nel senso di un’AZIONE ATTIVA, unica e indipendente, lontana da stereotipi, da trappole cognitive, da concetti pregressi o da qualsiasi forma di rigidità strutturata a priori o imposta dall’esterno.
Il PENSARE unico e irripetibile che diventa VALORE solo per il semplice fatto di essere esercitato.
Un ATTO DI LIBERTA’.
Un’azione emancipativa e cretiva. In una parola RIVOLUZIONARIA.

Questa l’alta valenza EDUCATIVA che abbiamo messo sul piatto.
(negli anni precedenti il gruppo classe era già stato trattato “psicologicamente” con interventi orientati all’affettività e all’emotività)

Per fare questo abbiamo deciso di utilizzare il DIALOGO FILOSOFICO, cioè uno strumento che non fornisce risposte, ma relativizza i fatti, problematizza gli eventi, obbliga ad un rigore formale, costringe a modificare il proprio punto di vista, a ridisegnare i propri scenari, a operare proiezioni di significati e a prevedere possibili conseguenze.
Così la PRATICA DIALOGICA, consentendo alla soglia di essere abitata, ha assunto CARATTERE FORMATIVO.

IL VIAGGIO
La cosa che i bambini fanno più volentieri è GIOCARE.
Per cui è questo che abbiamo proposto: UN GIOCO.
Tema del nostro gioco: IL VIAGGIO.
Un viaggio nell’altrove, un mondo intermedio fatto da quel particolare tipo di fantasia che si fonda sull’imitazione e sul ricordo, perché, come ci ha insegnato Gian Battista Vico: “ i bambini non creano dal nulla, ma da qualcosa, che è dato da ciò che hanno visto, sentito, toccato”.
Ma anche un viaggio il cui obiettivo non è quello di trovare risposte, bensì quello di intraprendere il viaggio stesso.
Perché solo viaggiando diventa possibile porsi le domande che conducono alle risposte.
E qui non si può non ricordare Winnicott che, proprio su questi temi (“Gioco e realtà”) cita una bellissima poesia di Tagore che inizia proprio così: “sulla spiaggia di mondi senza fine i bambini si incontrano”.
Ma pur sempre di gioco si tratta.
Del “far finta di”…
Un gioco tuttavia serissimo. Come serissimi sanno essere i giochi dei bambini.
Per cui si è posta subito la necessità di una prima riflessione di quanto, insieme, stavamo facendo.
Si trattava cioè di capire la natura intrinseca del nostro “far finta di”, ossia di definire se fosse più prossimo ad un inganno o più simile a un’illusione.
Ma per far ciò occorreva prima definirne i termini da un punto di vista concettuale.
Già a partire da questa prima sollecitazione, i bambini, inizialmente un po’ spaesati (di quella sorta di spaesamento che ci accompagna tutti quando ci accingiamo ad avvicinarci alla soglia!), hanno colto che nella loro classe stava avvenendo qualcosa di insolito e allo stesso tempo importante.
Sebbene si sentissero spinti e in qualche modo anche “obbligati” a pensare e ad argomentare le loro riflessioni, SI STAVANO DIVERTENDO.
In pratica STAVANO AL GIOCO!
Inganno e illusione sono concetti a cui partecipano tutte le forme di rappresentazione artistica.
Sono concetti epistemologicamente ambigui a cui Kant da cercato di dare una definizione:
“ vi sono alcune apparenze delle cose con le quali la mente gioca, ma dalle quali non è ingannata. Colui che le suscita non vuole, tramite loro produrre errori negli incauti, ma Verità; una Verità rivestita da una veste di apparenza, la quale non nasconde la sua stessa più intima natura, ma la sottopone, abbellita davanti agli occhi (….) se in tali apparenze vi è qualcosa che, come si dice comunemente, inganna, dovrà essere chiamata illusione”
(E. Kant- “Inganno e Illusione”)

Sapere che altri prima di loro, i filosofi, si erano già spesi su questo terreno, ha alimentato il dibattito per cui ILLUSIONE è diventata
“quella cosa che fai mentre dormi, perché mentre sogni pensi che quello che stai facendo è vero e tu ci credi mentre lo fai “( Miriam),
mentre l’INGANNO
“è una cosa brutta perché tutti sanno che non è vero ma ti fanno credere il contrario” (Paolo).
L’illusione apre le porte alla fantasia, alla creazione di mondi possibili, mentre l’inganno imprigiona nello stereotipo del dover essere.
“Come quando S. fa il buffone in classe e scherza V. e noi ridiamo. E la maestra si arrabbia. Noi gli facciamo credere di essere il capo. Cioè è lui che pensa di esserlo” (Andrea).
Distinguere tra inganno e illusione ci ha condotto a varcare una soglia e ci ha costretti ad assumere un differente punto di vista cognitivo, rendendoci capaci di spostarci verso altri orizzonti di pensiero.
Ma è in questa DINAMICITA’ che che il fascino e la magia dell’APPRENDERE, perché il pensiero afferma la propria AUTONOMIA proprio nell’istante che si dichiara disposto ad accogliere le illusioni dell’altro.
Ma la partecipazione ad un viaggio è libera.
Così il gruppo dei bambini si è confrontato sulla possibilità o meno di vivere questa avventura.
“ Perché dobbiamo partire?”
Di fronte all’apparente ingenuità di questa domanda i bambini sono stati invitati a fare ipotesi, a condividere immagini, paure, aspirazioni, a motivare SEMPRE le loro scelte e a cercare di sviluppare, seguendo il filo dei propri ragionamenti, possibili conseguenze.
Allo stesso modo, quando è stato chiesto loro, una volta formato l’equipaggio, di pronunciarsi circa la presenza o meno di un adulto…..
“la maestra non la vogliamo perché se no ci fa fare i compiti anche se non siamo a scuola” (Lucia)
“i genitori non vengono perché i grandi comandano sempre i bambini” (Cristian)
Così, nel gioco delle INFINITE POSSIBILITA’, ha preso corpo il tema delle REGOLE e, attraverso la simulazione del fantastico ci siamo trovati, simultaneamente in due mondi: quello dell’immaginazione e quello della realtà.
I bambini si sono perciò trovati naturalmente a dover cambiare posizione cognitiva, a decentrarsi, tramite l’esercizio della mente simulativa, dalle loro posizioni abituali e a pensare altrimenti.
“Se non ci sono gli adulti a dirci quello che dobbiamo fare, allora significa che ce lo dobbiamo dire da soli”(Clara)
Anche in questo caso il ragionare dei bambini è stato accompagnato dal ragionae dei filosofi.
Diceva Wittgenstein (Ricerche filosofiche):
“Seguire una regola è una prassi.
E se a determinare il modo in cui le regole vanno seguite è una prassi, ne consegue che non possono essere a loro volta le regole a determinare una prassi”.
Quindi, cosa succederebbe nel nostro equipaggio se, una volta stabilite le regole, qualcuno decidesse di non rispettarle?
Le regole e il rispetto delle regole.
Le regole e la trasgressione.
La trasgressione e la punizione.
Nella Repubblica di Platone, Trasimaco il Sofista diceva a Socrate che “il Giusto è l’Utile del più forte, perché il più forte, potendo comandare, stabilisce quello che è giusto e quello che non lo è sulla base della sua utilità”.
Così il tema delle Regole e quello del capo si fondono.
A questo punto il dibattito si fa sempre più acceso e il viaggio ha portati i bambini a raggiungere le terre delle CONDIVISIONE.
Perché, nel mondo dell’immaginazione, alle regole accettate per autorità o accolte per consuetudine, sono state sostituite quelle promosse dal gruppo stesso e definite per necessità.
“Le regole ci servono per non litigare” (Simona)
“però devono andare bene a tutti altrimenti poi uno non le rispetta” (Ivan)

E allora come si fa a mettersi d’accordo ?
E soprattutto come si fa quando si è in tanti e ognuno ha in mente la sua idea di regola?

Ancora una volta è il procedere per domande semplici che costringe ad una riflessione che non lascia spazio all’implicito.
Perché nulla è dato per scontato, ma tutto si può declinare in uno spazio dove le possibilità, purchè argomentate, sono sempre infinite.
I bambini diventano protagonisti in una dimensione che ormai è di gruppo; discutono tra loro, argomentano, propongono soluzioni, trovano contraddizioni, si perdono nei loro ragionamenti per trovare insieme nuove vie e nuove soluzioni.
Ogni tema proposto apre la porta ad una nuova riflessione che, se a volte allontana dalla partenza, è solo per comporre nuovi orizzonti e aggiungere nuove prospettive.
I bambini parlano tra loro.
Soprattutto iniziano ad ascoltarsi.
Riflettono sul pensiero dell’altro.
Affacciandosi alle rispettive soglie vedono finalmente i propri compagni.
E il bisogno di mediazione diminuisce.

Per concludere, sarebbe interessante ascoltare le parole di Walter Omar Kohan, docente di filosofia all’università di Rio de Janeiro, che ci invita a :
“non vedere l’infanzia come ciò che deve essere educato e trasformato secondo una Verità che conosciamo anticipatamente, ma a vederla invece come ciò che può aiutarci ad educare e a trasformare noi stessi, come un’esperienza aperta e contunua.”

Uniped
 
 

 

Specialisti disturbi dell'apprendimento Vimodrone (Mi)

 

Seguici anche su
.
seguici su facebook
 
Seguici su Twitter

La sede | Chi siamo? | Contattaci

CSP, Centro Scolastico Pedagogico Via C. Battisti 38 - 20090 Vimodrone (Mi) - PI 05991470963