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LA MEDIAZIONE INTERCULTURALE

di Francesca Zannoni - psicopedagogista

...barbarus his ego sum quia non intellegor illis....
(sono barbaro per loro perché non possono capirmi)
Ovidio


Intorno alla metà del secolo scorso, il medico scozzese, Dott. David Livingstone, recatosi per la prima volta in Africa australe, si accorse che i missionari presenti nella zona di Città del Capo costruivano di rado un vero rapporto con le popolazioni locali.
Le maggiori difficoltà non erano costituite dalla lingua (i missionari di allora non solo imparavano meticolosamente le lingue autoctone, ma dedicavano moltissimo tempo alla traduzione letterale dei testi sacri), bensì dalla quasi totale impossibilità di comprendere un mondo di valori e significati, spesso di natura metalinguistica, oltre che antropologico-culturale, diametralmente opposti rispetto ai propri.
Se gli uomini bianchi, non potendo comprendere le ricchezze della società africana la disprezzavano considerandola barbara e primitiva, in ogni caso arretrata rispetto alla propria, allo stesso modo gli uomini neri, non riuscendo a comprendere il significato della cultura europea, se ne tenevano lontani, subendola, il più delle volte, o avvicinandovisi in modo prevalentemente formale e utilitaristico.
Si poneva un problema di Weltanschaung.
Anche i numerosi reportage etnografici e antropologici, che si sono sviluppati parallelamente alle grandi scoperte geografiche, sebbene abbiano aiutato la società occidentale a comprendere in modo più obiettivo la complessa civiltà africana, non sembra abbiano affrontato pienamente questo problema.
Se è vero, come diceva Lévi-Strauss che ciò che accumuna tutti gli uomini è la struttura logica del loro pensiero, è altrettanto vero che, seguendo la lezione di Clifford Geertz, l'antropologo, l'etnologo, o comunque "colui che racconta di altri" non racconta la Realtà, ma sempre e soltanto la sua particolare Interpretazione della realtà.
Di questo si era già reso conto, nel V sec. A. C., Ecateo di Mileto, logografo, quando, narrando degli usi e costumi delle popolazioni straniere (barbaroi barbaroi, lett. stranieri) aveva espresso la chiara consapevolezza scientifica che il proprio pensiero non fosse altro che Uno tra i molti possibili.
Ne deriva che la descrizione dei costumi di un popolo, per quanto fedele o "scientifica" possa essere, non risolve la questione della comunicazione.
Gli scambi comunicativi, infatti, tanto nella forma verbale che in quella analogica, non coinvolgono unicamente le competenze linguistiche dei soggetti interagenti, non avvengono cioè in astratto, o in un luogo privo di riferimenti, ma si articolano in una dimensione "hic et nunc", che non può prescindere, in alcun modo, dalle proprie determinazioni sociali e culturali. In tal modo è possibile porre l'esistenza di una stretta relazione tra il linguaggio di una comunità e le categorie di significazione utilizzate per unire rappresentazioni di stimolo in configurazioni significanti (Kuhn, 1969).
Quando una comunità scientifica si costituisce, immette all'interno di una propria ermeneutica non solo un vocabolario caratteristico, tecnico per l'appunto, ma anche un insieme di modelli di comunicazione e di strategie di relazione connessi alla propria epoca storica, al proprio ambiente, alla propria cultura.
Ogni scienza, ossia ogni forma esteriore che assume la conoscenza umana, si muove e si struttura all'interno di un numero enorme di tradizioni, le quali, non essendo divenute casualmente, fondano la loro veridicità in un Tempo e in uno Spazio nel mondo, così come accade per tutto ciò che è corporeizzato nei corpi (Husserl, 1936).
E' l'esperienza relazionale che consente di compiere quel passaggio che porta da una conoscenza di natura intrasoggettiva a una conoscenza di natura oggettiva. Se così non fosse ogni cosa avrebbe valore solo per il soggetto che la esperisce, finendo col strutturare una serie di "menti isolate" (Stolorow, Atwood, 1995) impossibilitate, per una sorta di definizione ontologica, all'interazione con Altri-diversi-da-sé.
Si tratterebbe cioè di menti dalla rigida impostazione monadica, il cui incontro, nella migliore tradizione leibniziana, non potrebbe produrre mondi in interazione, bensì mondi che, pur incontrandosi, rimarrebbero imprigionati in una sorta di soggettività ipostatizzata, perché le monadi, in quanto sostanze autonome, non comunicano tra di loro, ma si rappresentano la realtà ognuna dal suo particolare punto di vista, con maggiore o minore chiarezza.
Il linguaggio quindi, inteso come propaggine ultima ed esperibile di un più complesso intreccio relazionale, sembrerebbe svolgere un ruolo determinante nella costruzione di qualsivoglia teoria scientifica.
L'esperienza comune parrebbe insegnare che qualsiasi "parola" o, più precisamente qualsiasi sintagma stando al particolare dizionario utilizzato dai linguisti, a prescindere dal suo valore semantico o dalla sua complessità, può essere traslato in una qualunque lingua del mondo. Stando così le cose sarebbe possibile parlare di ogni argomento con qualsiasi persona indipendentemente dalla sua lingua nazionale.
Secondo il concetto di onniformatività semiotica, infatti, il linguaggio verbale, grazie alle sue peculiari caratteristiche di flessibilità e apertura semantica, è possibilitato a dare forma a qualsiasi tipo di esperienza ed è conseguentemente capace di assumere, come proprio oggetto, ogni contenuto di esperienza.
A partire da ciò è possibile inferire che, dato un particolare concetto, tutte le lingue abbiano sempre una parola per rappresentarlo.
Questo è vero a livello teorico.
In realtà non avviene sempre così, e chi si occupa di traduzioni sa bene che la gamma delle parole o dei concetti "intraducibili" è molto più vasta di quanto si potrebbe immaginare.
Nella lingua sichuana, solo per citare un esempio, non esistono parole per esprimere il concetto di "anima-psiche"; le parole più simili che i primi studiosi occidentali utilizzarono per tradurre questa idea alle popolazioni di Mabotsa (nel territorio dell'attuale Botswana) erano quelle usate per descrivere il respiro, l'aria o il vapore proveniente da una pentola in ebollizione (Jeal, 1973).
In effetti nel passare da una lingua storico-naturale ad un'altra, ossia nell'atto di compiere una traduzione, non avviene semplicemente una trasposizione di etichette di contenuto semantico.
Ogni traduzione contiene in sé una completa ristrutturazione di contenuti semantici.
Andando a ritroso nella nostra storia, del resto, ci accorgiamo che alcune strutture gnoseologiche così care alla nostra cultura psicologica e psicoanalitica, non appartengono affatto alla nostra tradizione linguistica. Prima del V sec. a.C., infatti, non esistevano i concetti di mente-psiche (yuch psiche, lett. anima, soffio) o di corpo-fisico (svma soma, lett. corpo), così come li intendiamo oggi. Le parole utilizzate in un'ipotetica traduzione avrebbero assunto un significato semanticamente differente.
Svma
(soma), per un greco del tempo di Omero, avrebbe significato soltanto il corpo morto, mentre il termine yuch (psiche) avrebbe significato quella sostanza capace di riassumere l'esperienza cosciente dell'Io.
La stessa concezione dicotomica dell'essere umano, così cara alla storia del pensiero occidentale e fondata su una netta separazione tra il corpo e lo spirito, non trova corrispettivi in altri sistemi di pensiero.
Linguaggio e cultura si fondano in unamalgama gnoseologico da cui è impossibile isolare le singole componenti per determinare a quale spetti il ruolo predominante.
Se, fino a Platone, il corpo e lo spirito partecipavano assieme alla definizione dell'uomo, con l'avvento del cristianesimo si andò sempre più irrigidendo quella posizione culturale che, scindendo le due parti, attribuiva ora all'una ora all'altra significato e dignità scientifica.
Le scienze della natura si stavano sempre più distaccando dalle scienze dello spirito, imponendo alla comunità scientifica e culturale una precisa scelta di campo.
Essere uno studioso della natura significava assumere non solo un comportamento e un codice deontologico, ma anche, e soprattutto, un linguaggio del tutto differente da quello adottato da un collega "scienziato dello spirito".
Procedendo per questo sentiero si arrivò al paradosso, tutto occidentale, per cui, per comprendere l'essere umano, in tutte le sue manifestazioni, bisognava assumere l'unica prospettiva teorica in grado di garantire coerenza e affidabilità teoretica ed epistemologica: quella offerta dallo studio delle scienze naturali.
Per poter parlare dell'uomo diveniva cioè necessario negare la sua stessa essenza di Umanità.
Partendo da questo assioma culturale il primo contatto con gli uomini di scienza e medicina non occidentale risultò del tutto incomprensibile ai loro colleghi e non stupisce il fatto che il loro pensiero fosse immediatamente definito ascientifico, magico, infantile o, nella peggiore delle ipotesi, in odore di stregoneria.
Se ne deduce che, sebbene il linguaggio svolga un importante ruolo di mediazione tra il mondo del simbolico e il mondo del reale, tuttavia il Significato, nella sua complessità, non è riconducibile alla sola componente logico-linguistica. Se così non fosse si rischierebbe di creare uno iato tra la realtà degli oggetti in sé e la realtà simbolica a cui essi accedono.
La lingua infatti si prospetta come una struttura semiotica biplanare, ma non conforme.
Questo significa che nel suo essere, la lingua naturale non può appellarsi unicamente a referenti di tipo sintattico o grammaticale. Essa attinge parte del suo essere reale da una dimensione pragmatica, cioè dalle regole d'uso che tengono conto delle circostanze e dei contenuti di emissione, e che stabiliscono le possibilità degli usi retorici attraverso cui accedere a significati differenti.
Nella seconda metà del XX secolo Martin Heidegger affermava: "Il nominare non distribuisce nomi, ma applica parole. (...) Il linguaggio chiama il mondo alla sua essenza. Questa chiamata è l'evento della dif-ferenza che porta il mondo al suo essere mondo e le cose al loro essere cose" (Heidegger, 1959).
Il significato degli oggetti fenomenici è dunque da ricercarsi nella relazione che ognuno instaura con la realtà che lo circonda, a cui si affaccia la propria cultura e la propria personale esperienza.
Il linguaggio si presenta in tal modo come un sistema aperto e indeterminato, completamente adattabile alle varie esigenze della situazione comunicativa.
Per questo motivo il significato assunto dagli oggetti non è immobile, ma muta nel tempo.
Il linguaggio però, nelle sue determinazioni storiche e naturali, è un codice a cui accedono tanto il piano dei significati, ossia i contenuti del discorso, quanto quello dei significanti, ossia le modalità attraverso le quali i significati possono manifestarsi.
Ne consegue che comunicare prevede la messa in atto di molteplici fattori che, partendo da quelli di natura sintattico-grammaticale, toccano quelli semantici, per approdare a quelli più propriamente sociali e pragmatici, quali l'utilizzo di un determinato codice extraverbale all'interno di un possibile panorama.
La ragione di ciò risiede nel fatto che la lingua, pur essendo per sua natura il più complesso e completo tra i sistemi semiotici in uso, non è tuttavia del tutto effabile. Sebbene riesca a descrivere esperienze fisiche o mentali anche molto complesse, tuttavia in numerose circostanze deve far ricorso ad altri codici di significazione di natura analogica, quali le indicazioni mimiche, gestuali, posturali e le inflessioni tonemiche.
La realtà, permeata e assunta a livello linguistico da strutture significanti, si costituisce come uno spazio aperto configurato, con modalità differenti dai singoli soggetti del discorso.
A seconda del contesto comunicativo, delle intenzioni, o, più semplicemente, delle modalità relazionali dei singoli parlanti, sarà possibile assistere ad una mutazione non solo dei significati agiti, ma anche dei significanti utilizzati per rappresentarli.
La psicologia delle emozioni, ad esempio, ci ha insegnato che le espressioni della mimica facciale che caratterizzano le emozioni primarie appartengono indistintamente a tutto il genere umano. Sono cioè specie specifiche della razza umana.
Nonostante ciò i vari gruppi culturali differiscono nelle categorie e negli strumenti linguistici, cognitivi o comportamentali, che mettono in campo per definirle, per rappresentarle o semplicemente per descriverle.
Appare evidente che la differenziazione tra le culture non appartiene unicamente a discriminanti di tipo cognitivo o percettivo, ma a tutti quegli aspetti sociali e culturali che contraddistinguono ogni gruppo etnico e che si pongono come elementi fondativi di ogni specifico sapere e di ogni scambio comunicativo e relazionale.
Il problema dell'incomunicabilità culturale infatti, al di là della conoscenza specifica dei linguaggi, non pare essere ancora risolto, nonostante l'enorme sviluppo che le scienze della comunicazione stanno avendo nella nostra epoca.
La causa di ciò è da ricercarsi nella capacità di decodificare e manipolare codici differenti, non solo facendo ricorso alla possibilità di interpretare i messaggi, ma utilizzando anche modelli di apprendimento differenti.
Le componenti paralinguistiche di un discorso, che tanta parte hanno nel caratterizzare i soggetti della comunicazione rendendo immediatamente nota ai loro interlocutori le varie provenienze geografiche, non appartengono a quel genere di sapere appreso per via didattica, ma affondano le proprie radici in tutta la storia e in tutta la tradizione del proprio popolo.
Si narra, infatti, che quando il vecchio indiano cherokee sente avvicinarsi l'ora della morte, chiama a sé il figlio e passa con lui, in solitudine, alcuni giorni.
Non è un sapere tecnico quello che il vecchio trasmette in quel particolare momento della propria vita, non tramanda cioè formule, rituali o leggende del proprio popolo. Per questo ci sono altri momenti e altri maestri.
Quello che sta insegnando al giovane figlio è un sapere fatto di piccole cose di tutti i giorni; gesti, sguardi e ritmi che lo accompagneranno per tutto il resto della sua vita e che faranno di lui, agli occhi di tutti gli altri, un membro della tribù. Della sua tribù e di nessun'altra.
E' quindi la parola socializzata che porta con sé un sapere che racchiude una pratica di pensiero e contiene un'emozione di mondo.
Ed è la parola socializzata che partecipando fenomenicamente (fainomenon, fainomenon, lett. ciò che si mostra), all'esperienza del mondo, tramite il solo utilizzo della voce, assume in sé la duplice capacità di intercessione e proposta, divenendo mediatrice di tutte le culture umane.
In questo senso è possibile affermare che l'ontogenesi ricapitola la filogenesi.
Il significato della cultura non è la produzione personale di un individuo isolato dal suo contesto referenziale, ma nasce all'interno di una comunità che lo pone e lo riconosce su un terreno comune dove il non verbale e il non scritto diventano l'oggetto della trasmissione del sapere.
In essa si colloca tutto il nostro voler dire, punto di partenza e di arrivo per quella Volontà (Wille) che rappresenta il proprio Essere nel Mondo.
E' l'appartenenza ad una comunità culturale che pone l'esistenza come soggettività, ossia che fonda l'essere come "Colui-che-esiste-in-quanto-tale" .
E' grazie ad essa che l'Io si può presentare all'Altro non più come un oggetto di indagine conoscitiva, ma come un Tu-soggetto da riconoscere e da cui farsi riconoscere prima ancora di essere conosciuto.
Questo significa che non è la mente del singolo individuo che fornisce le certezze di cui disponiamo, ma la relazione e l'interdipendenza (Gergen K. 1973).
Il fattore "reciprocità" diventa il problema centrale della dimensione interculturale.
E' attraverso l'uso del linguaggio, inteso nel senso più ampio del termine, e delle sue regole universalmente riconosciute, che i soggetti affermano la propria Soggettività.
La privazione linguistica conseguente all'impossibilità di comunicazione sprofonda inevitabilmente la soggettività nel ruolo subalterno dell'oggetto, sottoposto alla curiosità, allo studio, all'interesse, alla cura di altre soggettività.
Tramite la condivisione del prodotto linguistico, invece, l'Essere afferma se stesso in quanto esistente. E in quanto esistente assurge immediatamente a detentore di diritto.
Questa sorta di rivoluzione copernicana, operata all'interno di una prospettiva relazionale, porta l'Altro a perdere la sua valenza aliena per rivelarsi come una molteplicità di elementi e di rapporti.
Non è un caso infatti che per il mondo della Grecia Classica all'essere barbaro, straniero, appartenessero non solo usi e costumi differenti dai propri, ma anche un particolare tipo di discorso "incerto, quasi balbuziente, puerile nella sua struttura".
Un discorso a cui non si poteva accedere perché non era decodificabile.
E' il bisogno di appartenere a comunità allargate e di essere riconosciuti come individui dotati di soggettività, che ha portato tutti gli uomini, a prescindere dalla longitudini geografiche o dalle epoche storiche, a riunirsi in gruppi monolinguistici e sovranazionali.
In essi confluisce l'essenza stessa del popolo.
E' il caso della koinh (coiné, agg. lett. comune) classica, della ricerca cioè di quella forma particolare di greco capace di contenere in sé tutti gli idiomi in uso nelle varie regioni elleniche. O dello swahili, la lingua degli "abitanti della costa" estesa, con flessioni, a tutte le popolazioni dell'Africa centro-meridionale e divenuta, almeno nell'immaginario, la lingua simbolo dell'africanità. Ma è anche il caso dell'inglese, lingua simbolo dell'occidente industrializzato, adottata, forse anche in virtù di questo, come principale lingua veicolare del mondo.
"Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il dire originario come mostrare" affermava Heidegger.
E il mostrare, nell'ottica interculturale apre la porta a una reale condivisione di soggetti e di valori.
Il parlare presuppone un ascoltare.
Ascoltare l'altro che parla, ma ascoltare anche se stessi mentre si parla.
Eppure il linguaggio non si esaurisce né nel parlare, né, tanto meno, nell'ascoltare.
E' qualcosa che rimanda a un altrove, ma che svela al tempo stesso uno spazio reale in cui l'azione del simbolico diventa possibile.
La parola, strumento privilegiato della comunicazione e veicolo attraverso cui può agirsi l'espressione, rimanda necessariamente alla presenza dell'altro in quanto esistente.
Per questo la parola riveste un ruolo che è fondamentalmente sociale.
Privare qualcuno del suo diritto di parola significa privarlo di questa possibilità, relegandolo in un luogo al di fuori del tempo e dello spazio in cui ogni messaggio è privo di senso.
Raccontano le cronache che Federico I, volendo comprendere quale fosse la lingua originaria del genere umano, predispose un originale esperimento.
Diede ordine alle balie di corte di allevare un certo numero di neonati dando loro il nutrimento e le cure necessarie, ma vietando qualsiasi forma di comunicazione verbale.
Arrivati all'età dell'adolescenza il re li avrebbe convocati al suo cospetto per interrogarli e dare risposta in questo modo all'enigma che lo affliggeva.
Come qualche secolo più tardi ebbe modo di valutare anche Spitz, sebbene in altre circostanze, l'esperimento di re Federico non portò ad alcun risultato; i bambini, nonostante le cure, morivano tutti.
Nella società dei consumi e delle telecomunicazioni accade più o meno la stessa cosa.
L'altro, lo straniero, il diverso, non viene riconosciuto per il suo essere soggetto di messaggi comunicativi.
Incapace a comunicare diventa, nella migliore delle ipotesi, notizia, oggetto capace di catalizzare pensieri, azioni di solidarietà, reazioni di insofferenza.
Privato di uno spazio in cui poter agire la propria appartenenza, depauperato delle proprie coordinate di riferimento, finisce con l'apparire voce vuota, a cui non vale la pena prestare ascolto.
Scriveva Hölderlin che la voce richiede il linguaggio possedendo però totale libertà nei suoi confronti; tuttavia privata di un linguaggio che ne sostenga le qualità significanti la voce non riesce ad affermare le forze del desiderio che pure la abitano.
Privato di un interlocutore che si ponga ad accogliere il suo messaggio, lo straniero può semmai ascoltare i messaggi degli altri, cercando di afferrare non solo il contenuto linguistico, ma anche quel particolare punto di vista che lo definisce in negativo attraverso la mancanza di competenze.
E, come accadde per i bambini di re Federico, è destinato a morire.
Non è un caso quindi che ai servizi territoriali accedano, in numero sempre maggiore, persone appartenenti a culture non europee.
Non sempre la loro domanda è esplicita. Spesso dietro all'ennesimo malessere fisico si cela un altro tipo di malessere.
Il più delle volte è il bisogno di essere ascoltati, di aprire un luogo in cui dare voce a un discorso che non può essere espresso altrove.
E per poterlo fare è necessario ricorrere alle sole strutture che la società occidentale riconosce come ambiti deputati alla cura.
Alla cura dell'ascolto.
La voce, nella sua funzionalità semantica, oltrepassa i limiti posti dalla parola significante; abita il silenzio del corpo come facoltà primaria di simbolizzazione e, affondando le sue radici nella dimensione dell'inconscio, sfugge alle comune formule concettuali.
In quanto tale si sessualizza creando quelle strutture arcaiche che compongono l'immaginario antropologico.
La tendenza alla somatizzazione, propria del paziente straniero, sarebbe perciò la conseguenza dell'assenza di comunicazione e dell'isolamento in cui sono costretti coloro che hanno perso i riferimenti alla propria soggettività.
Nella pratica psicoterapeutica, però le patologie dei pazienti immigrati tendono ad essere descritte come derivazione del trauma migratorio o, più semplicemente, vengono assimilate alle categorizzazioni nosologiche proprie del mondo occidentale.
Alla cura dell'ascolto, l'unica che implicitamente viene richiesta dalla maggior parte dei pazienti, si sostituisce la terapia della tecnica medica, l'unica che lo scienziato occidentale sembra in grado di offrire.
In questo modo alla domanda di riconoscimento tramite la comunicazione, non viene data risposta o, tutt'al più, si risponde negando la possibilità stessa di comunicare.
Il corpo diviene così il mediatore di una comunicazione che altrimenti non avrebbe luogo.
Un corpo malato, oggettivato dalla presenza stessa del sintomo e reificato nel suo tentativo di imporsi come soggetto.
Non è così che accade in altre culture dove la distinzione tra malattie organiche, somatiche o mentali è del tutto assente.
Così Piero Coppo riferisce di un paziente dell'etnia dei Dogon (Mali) affetto da "vento": "Il vento colpisce quelli che hanno la testa leggera, i più deboli. Entra nel corpo per le narici o gli altri orifizi, o si siede sulla testa. Fa il corpo caldo e rigido; serra i denti; fa dolere la testa. Allora uno dice, e fa, cose senza senso. Se non è curato può uccidere. Non è follia, ma può diventarlo" (Coppo P., 1996).
La prospettiva epistemologica che pone tutti i fenomeni psichici all'interno di una determinata cornice di osservazione, non solo riattribuisce soggettività a ciò che era oggetto, ma riafferma la contestualizzazione significante a significati decontestualizzati.
Leggere la patologia del paziente dogon al di fuori del suo contesto culturale, non solo sarebbe fuorviante rispetto ad un'ipotetica diagnosi, ma, fatto ancora più grave da un punto di vista etico e terapeutico, causerebbe un empasse comunicativo e relazionale in cui medico e paziente rimarrebbero inesorabilmente schiacciati.
Tobie Nathan sostiene infatti che la cultura vissuta costituisce nel soggetto una sorta di doppio con il suo psichismo. Nel caso del paziente occidentale, durante la consultazione clinica, questo doppio è implicitamente riconosciuto come comune.
Non è così per il paziente straniero.
E' a questo livello che si colloca il ruolo del mediatore interculturale, il cui compito non è tanto quello di porsi come una sorta di "traduttore della comunicazione" tra persone appartenenti a culture differenti, bensì quello di facilitare questo processo indipendentemente dallo schema cognitivo a cui ciascuno fa risalire la propria competenza linguistica.
Si configura così l'idea di comunicazione come processo inter-attivo e dinamico, capace cioè di innestare una dimensione relazionale differente nella quale ogni partecipante, pur partendo da punti di vista differenti, possa condividere un significato comune.
La reciprocità e la bidirezionalità a cui si allude, rimandano quindi a uno scenario comunicativo possibile e reale, nel quale i diversi punti di vista, straniero e autoctono, possono incontrarsi solo partendo dalla valorizzazione delle specificità di ognuno.
Per questo l'obiettivo di una relazione in chiave interculturale risiede nella capacità non di negare la differenziazione, bensì di promuovere l'annullamento delle differenze a livello dei significati (Argentieri S., 1995).
Se da un lato, nel tentativo di interpretare la realtà dell'altro, lo studioso di scienze umane, non può prescindere dall'analisi dei differenti codici linguistico-culturali, dall'altro non può cadere nella tentazione semplicistica di predisporre un apposito "ricettario della multiculturalità" in cui incasellare e leggere la complessità della relazione.
Strumento privilegiato di questo tipo di mediazione non è quindi il linguaggio, ma il discorso.
Un discorso però che non si attua nello spazio ristretto delle rispettive visioni linguistico-culturali, ma che si esprime solo agendo quello che Sini definisce "abitare la soglia".
Troppo spesso infatti l'opera di integrazione nella comunità ospitante, presunto obiettivo a cui ogni immigrato dovrebbe tendere, si esaurisce nell'appropriazione del linguaggio o negli strumenti offerti per facilitare questo processo.
E la soglia, ossia quello spazio incontaminato, o di frontiera, che divide l'Io dal Non Io, finisce con l'esaurirsi in esso.
Eppure la questione non si può risolvere in una prospettiva meramente linguistica.
Appropriarsi di una lingua-altra è diverso dall'apprendere un codice meramente linguistico.
Significa costruire un rapporto dinamico tra lingua e cultura.
Significa reinventarsi i propri codici comunicativi attribuendo alla nuova lingua inflessioni, toni e musicalità, come nel proprio idioma d'origine.
Significa ricostruire un linguaggio che non è più né mio né tuo, ma che può finalmente appartenere a entrambi. Ma significa anche poter leggere e sapere interpretare le percezioni proprie e dell'altro per intuirne i punti di contatto.
Significa riconoscere le soggettività all'interno delle differenze.
Solo in questo modo, abbandonando cioè lo stereotipo culturale che fa dell'ospitante colui che dà, e dell'ospite colui che riceve, è possibile realizzare quell'incontro che è alla base di ogni esperienza di mediazione. In tutti gli altri casi non si agisce una relazione di autentica interculturalità, ma un'esperienza, più o meno riuscita, di tolleranza, dimenticando le parole di Mirabeau secondo il quale "la tolleranza è un privilegio dei potenti".
E' questo il senso di "abitare la soglia", dove abitare indica appunto un perdurare nella condizione di duplice appartenenza, unica condizione in cui entrambi i poli del Tutto e del Niente possono fondersi in una dimensione realmente significante.
E' la condizione dell'immigrato-integrato, colui che ha perso la propria appartenenza etnica per non acquisire mai, nonostante gli incartamenti burocratici, la nuova condizione di cittadino.
E in questo perdurare tra cielo e terra, nel restare costantemente sospeso tra due culture, finisce con il possederle entrambe senza appartenere più a nessuna di esse.
Deacrive bene questa condizione Alvaro Santo angolano residente in Italia: "fu allora che avevo capito di essere neutro. Avevo molti schemi in testa. Il mio sangue non era più rosso; perdeva il suo brillio nero; stava diventando forse blu, forse giallo". (Santo A. , 2000)
Abitare la soglia contiene in sé, come costante possibilità, il concetto di attraversamento, ma non si esaurisce, né si realizza, in esso.
"Attraversare la soglia significa che ciò che era di là non è più il medesimo dall'altra parte. Dal di qua al di là qualcosa cambia. Qualcosa cambia intorno a noi, qualcosa cambia dentro di noi, sicché attraversare le soglie è continuamente fare esperienza di noi stessi e del mondo" (Sini, 1993).
Il mediatore della interculturalità agisce questo passaggio, senza poterlo mai realizzare in modo definitivo. Non oltrepassa la soglia, ma la abita costantemente.
In questo suo essere in bilico continua ad essere se stesso senza mai smettere di diventare altro.
Afferma necessariamente la propria cultura assumendo quella dell'altro.
Poco importa allora, se il mediatore della comunicazione interculturale sia autoctono o straniero.
La differenza si imporrebbe solo nella misura in cui la soglia da varcare fosse, a senso unico, quella predisposta dalla comunità ospitante.
In questa logica è chi arriva che deve compiere il salto; è chi arriva che deve entrare, in un modo o nell'altro; è chi arriva che deve darsi da fare per ridurre, nel più breve tempo possibile, quello spazio che ribadisce la sua condizione di straniero.
Meglio se ad accompagnarlo è un connazionale.
Chi è già al di qua della soglia può capire, accogliere, oppure può sentirsi minacciato o invaso. In ogni caso non deve oltrepassare nessun confine per affermare se stesso e il proprio essere soggetto.
L'obiettivo della relazione interculturale risiede perciò nella capacità di sostituire rappresentazioni intersoggettive alle consuete rappresentazioni intrasoggettive, ossia ridefinire, anche a livello cognitivo, sé e l'altro per far scaturire un'impostazione creola della relazione, dove la potenza interlinguistica risieda nella possibilità di parlare di oggetti presenti e nella concretezza delle definizioni .
Ogni rapporto interattivo, infatti è caratterizzato da una serie di stimoli reciproci posti in sequenza, che concorrono a suscitare mutamenti nello stile relazionale di due o più individui, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica o culturale.
"Adottare la relazione come teoria significa prendere teoricamente una posizione oltre lo stimolo esterno e lo stimolo interno, e non contro, per adottare a spiegazione del comportamento umano il concetto di relazione come interazione" (Minolli M., 1993).
Se dunque il linguaggio, in quanto oggetto della comunicazione, è lo strumento della relazione, è solo in quest'ultima che si fonda la possibilità di costruire un dialogo comunicativo.
La condizione di esistenza per gli oggetti del mondo reale, a partire da quelli di natura fisica, per arrivare a quelli di maggiore complessità concettuale, è strettamente correlata alla possibilità di essere descritti.
Per compiere questo processo però è necessario passare attraverso una dolorosa sperimentazione di riduzione fenomenologica (˘epoch, epoché lett. sospensione, dubbio), ossia compiere quell'operazione che riduce l'Essere a Fenomeno d'essere e la soggettività a coscienza pura.
Affinché questo passaggio sia possibile, l'antropologo, l'etnologo o comunque lo studioso di Geistwissenschaften deve riuscire a mettere tra parentesi se stesso e la propria cultura, riducendo la propria soggettività alla sola necessità del Cogito cartesiano e rifiutandosi di assumere il mondo come qualcosa di già dato e immutabile.
E' solo tramite questo processo di annullamento che si apre la possibilità di cogliere l'Essere storicamente determinato, per poter definire discorsivamente se stessi tramite l'annichilimento e la contemporanea riaffermazione di sé.
Vi è un movimento da compiere nella scena dell'intervento interculturale: un'assunzione di responsabilità nei confronti della propria esistenza in quanto evento relazionale e in quanto fatto storico.
Si tratta cioè di assumere la responsabilità di "essere-nel-mondo" in quanto intersoggettività.
"Prendersi cura dell'altro", nell'ottica della mediazione interculturale, non significa intervenire su una persona oggettivamente in difficoltà (lo straniero) per restituirgli una sorta di accettabilità sociale, ma condividere lo strumento comunicativo per dargli significatività discorsiva.
Il cambiamento prodotto da una relazione impostata a livello interculturale, presuppone necessariamente il mantenimento dell'Essere.
Non è l'Essere dell'Altro, il Sosein, che cambia, bensì il canale comunicativo e lo stile relazionale adottato.
Il linguaggio incomprensibile, fino a che centrato su regole e costrutti differenti a livello fonetico, sintattico e grammaticale, diventa linguaggio capace di produrre relazione nel momento in cui si dà la possibilità di condividere esperienze significative.
La capacità di comunicare diventa, in questo modo, una possibilità di apertura al mondo e un'occasione per posizionare se stessi in senso discorsivo riconoscendo e costruendo un sistema relazionale in cui ognuno può riconoscere il proprio mondo, i propri affetti, le proprie emozioni e il proprio senso di realtà.
Accade invece che, soprattutto nei confronti di persone non appartenenti alla comunità ospitante, si adotti una sorta di razzismo comunicativo, giocato, come fece notare il sociolinguista Massimo Vedovelli, nell'utilizzo di un linguaggio semplificato e finalizzato al perdurare di una relazione di distacco con l'altro.
Affermare costantemente il proprio Essere negando l'Essere Altro, ribadendo la separatezza e la differenza, favorisce l'insorgere di comunicazioni asimmetriche, in cui la relazione finisce con l'esistere solo nell'illusione di chi, dall'alto del suo potere, crede di poter gestire l'incontro.
Difficilmente in questo modo è possibile assurgere a quel grado di comprensione sufficiente per poter tentare di costruire un contatto relazionale.
Diceva Watzlawick che "un fenomeno resta inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica".
La definizione di uno spazio relazionale capace di contenere la complessa dinamica della comunicazione diventa perciò un altro degli obiettivi indispensabili per accedere alla mediazione dell'interculturalità.
Uno spazio, però, che per poter agire nel pieno delle sue potenzialità, deve riuscire a conciliare la semplicità di definizione con la completezza delle funzioni.
In esso gli agenti del discorso devono potersi sentire adeguatamente rappresentati, non occupando quelle posizioni gerarchicamente impostate che sposterebbero tutta la comunicazione in una dimensione perlocutoria.
Ma allo stesso tempo il sistema deve essere in grado di racchiudere la natura dei messaggi inviati, siano essi di carattere verbale o analogico, per comprenderli, prima di tutto, e per restituirli decodificati e interpretati ai referenti della comunicazione.
A buon motivo il mediatore della comunicazione interculturale è stato definito "al kantara", termine arabo che indica un ponte sospeso tra due rive.
E' nello spazio sospeso, idealmente racchiuso tra le sponde, ma simbolicamente proteso all'infinito, che si costruisce il luogo del possibile; un luogo in cui cose che apparivano bizzarre, perchè prive di senso, iniziano a strutturarsi semanticamente fino ad occupare la dimensione della normalità data dalla consuetudine e dalla conoscenza.
Per questo l'incontro con altre culture nel momento stesso in cui offre l'opportunità di estendere i confini della propria identità personale e sociale, risulta profondamente disorientante.
In quell'attimo è in gioco non solo ciò che noi facciamo agli altri, ma anche ciò che noi facciamo di noi stessi (Mantovani, 1998).
Ciò significa riconoscere ed assumere a livello di coscienza, il carico di tensione che un incontro di questo tipo è in grado di produrre.
Da una parte ci sono i sogni, le speranze, le aspettative. Dall'altra le difese, la paura, l'ignoto. Che si propenda per una parte o per l'altra, oppure che si cerchi di impostare una relazione di sintesi, in ogni caso diventa assolutamente necessario avviare un processo di riorganizzazione di sé, orientato alla ridefinizione dei confini della propria identità.
L'antropologo sperimenta in prima persona, ad ogni incontro etnografico, la propria "crisi" di fronte all'Altro, una crisi che è, al tempo stesso, etica, cognitiva ed esistenziale.
E' attraverso la sua affermazione, e conseguentemente il suo superamento, che l'antropologo fonda il proprio lavoro, inteso, secondo l'ancora attuale lezione di De Martino, come la ricostruzione razionale di identità inaccessibili.
Interculturazione indica quindi l'acquisizione di un nuovo codice valoriale, senza l'implicazione della perdita di quello precedente. Scriveva infatti nel XII secolo, Ugo da San Vittore: "L'uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante, colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero".

Tratto dal volume "Psicologia sociale e intercultura" a cura di Romina Coin, edito da Libreria Cortina Milano

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