LA
MEDIAZIONE INTERCULTURALE
di Francesca Zannoni - psicopedagogista
...barbarus his ego sum quia non intellegor
illis....
(sono barbaro per loro perché non possono capirmi)
Ovidio
Intorno alla metà del secolo scorso,
il medico scozzese, Dott. David Livingstone, recatosi per
la prima volta in Africa australe, si accorse che i missionari
presenti nella zona di Città del Capo costruivano di
rado un vero rapporto con le popolazioni locali.
Le maggiori difficoltà non erano costituite dalla lingua
(i missionari di allora non solo imparavano meticolosamente
le lingue autoctone, ma dedicavano moltissimo tempo alla traduzione
letterale dei testi sacri), bensì dalla quasi totale
impossibilità di comprendere un mondo di valori e significati,
spesso di natura metalinguistica, oltre che antropologico-culturale,
diametralmente opposti rispetto ai propri.
Se gli uomini bianchi, non potendo comprendere le ricchezze
della società africana la disprezzavano considerandola
barbara e primitiva, in ogni caso arretrata rispetto alla
propria, allo stesso modo gli uomini neri, non riuscendo a
comprendere il significato della cultura europea, se ne tenevano
lontani, subendola, il più delle volte, o avvicinandovisi
in modo prevalentemente formale e utilitaristico.
Si poneva un problema di Weltanschaung.
Anche i numerosi reportage etnografici e antropologici, che
si sono sviluppati parallelamente alle grandi scoperte geografiche,
sebbene abbiano aiutato la società occidentale a comprendere
in modo più obiettivo la complessa civiltà africana,
non sembra abbiano affrontato pienamente questo problema.
Se è vero, come diceva Lévi-Strauss che ciò
che accumuna tutti gli uomini è la struttura logica
del loro pensiero, è altrettanto vero che, seguendo
la lezione di Clifford Geertz, l'antropologo, l'etnologo,
o comunque "colui che racconta di altri" non racconta la Realtà,
ma sempre e soltanto la sua particolare Interpretazione della
realtà.
Di questo si era già reso conto, nel V sec. A. C.,
Ecateo di Mileto, logografo, quando, narrando degli usi e
costumi delle popolazioni straniere (barbaroi barbaroi, lett.
stranieri) aveva espresso la chiara consapevolezza scientifica
che il proprio pensiero non fosse altro che Uno tra i molti
possibili.
Ne deriva che la descrizione dei costumi di un popolo, per
quanto fedele o "scientifica" possa essere, non risolve la
questione della comunicazione.
Gli scambi comunicativi, infatti, tanto nella forma verbale
che in quella analogica, non coinvolgono unicamente le competenze
linguistiche dei soggetti interagenti, non avvengono cioè
in astratto, o in un luogo privo di riferimenti, ma si articolano
in una dimensione "hic et nunc", che non può prescindere,
in alcun modo, dalle proprie determinazioni sociali e culturali.
In tal modo è possibile porre l'esistenza di una stretta
relazione tra il linguaggio di una comunità e le categorie
di significazione utilizzate per unire rappresentazioni di
stimolo in configurazioni significanti (Kuhn, 1969).
Quando una comunità scientifica si costituisce, immette
all'interno di una propria ermeneutica non solo un vocabolario
caratteristico, tecnico per l'appunto, ma anche un insieme
di modelli di comunicazione e di strategie di relazione connessi
alla propria epoca storica, al proprio ambiente, alla propria
cultura.
Ogni scienza, ossia ogni forma esteriore che assume la conoscenza
umana, si muove e si struttura all'interno di un numero enorme
di tradizioni, le quali, non essendo divenute casualmente,
fondano la loro veridicità in un Tempo e in uno Spazio
nel mondo, così come accade per tutto ciò che
è corporeizzato nei corpi (Husserl, 1936).
E' l'esperienza relazionale che consente di compiere quel
passaggio che porta da una conoscenza di natura intrasoggettiva
a una conoscenza di natura oggettiva. Se così non fosse
ogni cosa avrebbe valore solo per il soggetto che la esperisce,
finendo col strutturare una serie di "menti isolate" (Stolorow,
Atwood, 1995) impossibilitate, per una sorta di definizione
ontologica, all'interazione con Altri-diversi-da-sé.
Si tratterebbe cioè di menti dalla rigida impostazione
monadica, il cui incontro, nella migliore tradizione leibniziana,
non potrebbe produrre mondi in interazione, bensì mondi
che, pur incontrandosi, rimarrebbero imprigionati in una sorta
di soggettività ipostatizzata, perché le monadi,
in quanto sostanze autonome, non comunicano tra di loro, ma
si rappresentano la realtà ognuna dal suo particolare
punto di vista, con maggiore o minore chiarezza.
Il linguaggio quindi, inteso come propaggine ultima ed esperibile
di un più complesso intreccio relazionale, sembrerebbe
svolgere un ruolo determinante nella costruzione di qualsivoglia
teoria scientifica.
L'esperienza comune parrebbe insegnare che qualsiasi "parola"
o, più precisamente qualsiasi sintagma stando al particolare
dizionario utilizzato dai linguisti, a prescindere dal suo
valore semantico o dalla sua complessità, può
essere traslato in una qualunque lingua del mondo. Stando
così le cose sarebbe possibile parlare di ogni argomento
con qualsiasi persona indipendentemente dalla sua lingua nazionale.
Secondo il concetto di onniformatività semiotica, infatti,
il linguaggio verbale, grazie alle sue peculiari caratteristiche
di flessibilità e apertura semantica, è possibilitato
a dare forma a qualsiasi tipo di esperienza ed è conseguentemente
capace di assumere, come proprio oggetto, ogni contenuto di
esperienza.
A partire da ciò è possibile inferire che, dato
un particolare concetto, tutte le lingue abbiano sempre una
parola per rappresentarlo.
Questo è vero a livello teorico.
In realtà non avviene sempre così, e chi si
occupa di traduzioni sa bene che la gamma delle parole o dei
concetti "intraducibili" è molto più vasta di
quanto si potrebbe immaginare.
Nella lingua sichuana, solo per citare un esempio, non esistono
parole per esprimere il concetto di "anima-psiche"; le parole
più simili che i primi studiosi occidentali utilizzarono
per tradurre questa idea alle popolazioni di Mabotsa (nel
territorio dell'attuale Botswana) erano quelle usate per descrivere
il respiro, l'aria o il vapore proveniente da una pentola
in ebollizione (Jeal, 1973).
In effetti nel passare da una lingua storico-naturale ad un'altra,
ossia nell'atto di compiere una traduzione, non avviene semplicemente
una trasposizione di etichette di contenuto semantico.
Ogni traduzione contiene in sé una completa ristrutturazione
di contenuti semantici.
Andando a ritroso nella nostra storia, del resto, ci accorgiamo
che alcune strutture gnoseologiche così care alla nostra
cultura psicologica e psicoanalitica, non appartengono affatto
alla nostra tradizione linguistica. Prima del V sec. a.C.,
infatti, non esistevano i concetti di mente-psiche (yuch
psiche, lett. anima, soffio) o di corpo-fisico (svma
soma, lett. corpo), così come li intendiamo oggi. Le
parole utilizzate in un'ipotetica traduzione avrebbero assunto
un significato semanticamente differente.
Svma (soma), per un greco del tempo di Omero, avrebbe
significato soltanto il corpo morto, mentre il termine yuch
(psiche) avrebbe significato quella sostanza capace di riassumere
l'esperienza cosciente dell'Io.
La stessa concezione dicotomica dell'essere umano, così
cara alla storia del pensiero occidentale e fondata su una
netta separazione tra il corpo e lo spirito, non trova corrispettivi
in altri sistemi di pensiero.
Linguaggio e cultura si fondano in unamalgama gnoseologico
da cui è impossibile isolare le singole componenti
per determinare a quale spetti il ruolo predominante.
Se, fino a Platone, il corpo e lo spirito partecipavano assieme
alla definizione dell'uomo, con l'avvento del cristianesimo
si andò sempre più irrigidendo quella posizione
culturale che, scindendo le due parti, attribuiva ora all'una
ora all'altra significato e dignità scientifica.
Le scienze della natura si stavano sempre più distaccando
dalle scienze dello spirito, imponendo alla comunità
scientifica e culturale una precisa scelta di campo.
Essere uno studioso della natura significava assumere non
solo un comportamento e un codice deontologico, ma anche,
e soprattutto, un linguaggio del tutto differente da quello
adottato da un collega "scienziato dello spirito".
Procedendo per questo sentiero si arrivò al paradosso,
tutto occidentale, per cui, per comprendere l'essere umano,
in tutte le sue manifestazioni, bisognava assumere l'unica
prospettiva teorica in grado di garantire coerenza e affidabilità
teoretica ed epistemologica: quella offerta dallo studio delle
scienze naturali.
Per poter parlare dell'uomo diveniva cioè necessario
negare la sua stessa essenza di Umanità.
Partendo da questo assioma culturale il primo contatto con
gli uomini di scienza e medicina non occidentale risultò
del tutto incomprensibile ai loro colleghi e non stupisce
il fatto che il loro pensiero fosse immediatamente definito
ascientifico, magico, infantile o, nella peggiore delle ipotesi,
in odore di stregoneria.
Se ne deduce che, sebbene il linguaggio svolga un importante
ruolo di mediazione tra il mondo del simbolico e il mondo
del reale, tuttavia il Significato, nella sua complessità,
non è riconducibile alla sola componente logico-linguistica.
Se così non fosse si rischierebbe di creare uno iato
tra la realtà degli oggetti in sé e la realtà
simbolica a cui essi accedono.
La lingua infatti si prospetta come una struttura semiotica
biplanare, ma non conforme.
Questo significa che nel suo essere, la lingua naturale non
può appellarsi unicamente a referenti di tipo sintattico
o grammaticale. Essa attinge parte del suo essere reale da
una dimensione pragmatica, cioè dalle regole d'uso
che tengono conto delle circostanze e dei contenuti di emissione,
e che stabiliscono le possibilità degli usi retorici
attraverso cui accedere a significati differenti.
Nella seconda metà del XX secolo Martin Heidegger affermava:
"Il nominare non distribuisce nomi, ma applica parole. (...)
Il linguaggio chiama il mondo alla sua essenza. Questa chiamata
è l'evento della dif-ferenza che porta il mondo al
suo essere mondo e le cose al loro essere cose" (Heidegger,
1959).
Il significato degli oggetti fenomenici è dunque da
ricercarsi nella relazione che ognuno instaura con la realtà
che lo circonda, a cui si affaccia la propria cultura e la
propria personale esperienza.
Il linguaggio si presenta in tal modo come un sistema aperto
e indeterminato, completamente adattabile alle varie esigenze
della situazione comunicativa.
Per questo motivo il significato assunto dagli oggetti non
è immobile, ma muta nel tempo.
Il linguaggio però, nelle sue determinazioni storiche
e naturali, è un codice a cui accedono tanto il piano
dei significati, ossia i contenuti del discorso, quanto quello
dei significanti, ossia le modalità attraverso le quali
i significati possono manifestarsi.
Ne consegue che comunicare prevede la messa in atto di molteplici
fattori che, partendo da quelli di natura sintattico-grammaticale,
toccano quelli semantici, per approdare a quelli più
propriamente sociali e pragmatici, quali l'utilizzo di un
determinato codice extraverbale all'interno di un possibile
panorama.
La ragione di ciò risiede nel fatto che la lingua,
pur essendo per sua natura il più complesso e completo
tra i sistemi semiotici in uso, non è tuttavia del
tutto effabile. Sebbene riesca a descrivere esperienze fisiche
o mentali anche molto complesse, tuttavia in numerose circostanze
deve far ricorso ad altri codici di significazione di natura
analogica, quali le indicazioni mimiche, gestuali, posturali
e le inflessioni tonemiche.
La realtà, permeata e assunta a livello linguistico
da strutture significanti, si costituisce come uno spazio
aperto configurato, con modalità differenti dai singoli
soggetti del discorso.
A seconda del contesto comunicativo, delle intenzioni, o,
più semplicemente, delle modalità relazionali
dei singoli parlanti, sarà possibile assistere ad una
mutazione non solo dei significati agiti, ma anche dei significanti
utilizzati per rappresentarli.
La psicologia delle emozioni, ad esempio, ci ha insegnato
che le espressioni della mimica facciale che caratterizzano
le emozioni primarie appartengono indistintamente a tutto
il genere umano. Sono cioè specie specifiche della
razza umana.
Nonostante ciò i vari gruppi culturali differiscono
nelle categorie e negli strumenti linguistici, cognitivi o
comportamentali, che mettono in campo per definirle, per rappresentarle
o semplicemente per descriverle.
Appare evidente che la differenziazione tra le culture non
appartiene unicamente a discriminanti di tipo cognitivo o
percettivo, ma a tutti quegli aspetti sociali e culturali
che contraddistinguono ogni gruppo etnico e che si pongono
come elementi fondativi di ogni specifico sapere e di ogni
scambio comunicativo e relazionale.
Il problema dell'incomunicabilità culturale infatti,
al di là della conoscenza specifica dei linguaggi,
non pare essere ancora risolto, nonostante l'enorme sviluppo
che le scienze della comunicazione stanno avendo nella nostra
epoca.
La causa di ciò è da ricercarsi nella capacità
di decodificare e manipolare codici differenti, non solo facendo
ricorso alla possibilità di interpretare i messaggi,
ma utilizzando anche modelli di apprendimento differenti.
Le componenti paralinguistiche di un discorso, che tanta parte
hanno nel caratterizzare i soggetti della comunicazione rendendo
immediatamente nota ai loro interlocutori le varie provenienze
geografiche, non appartengono a quel genere di sapere appreso
per via didattica, ma affondano le proprie radici in tutta
la storia e in tutta la tradizione del proprio popolo.
Si narra, infatti, che quando il vecchio indiano cherokee
sente avvicinarsi l'ora della morte, chiama a sé il
figlio e passa con lui, in solitudine, alcuni giorni.
Non è un sapere tecnico quello che il vecchio trasmette
in quel particolare momento della propria vita, non tramanda
cioè formule, rituali o leggende del proprio popolo.
Per questo ci sono altri momenti e altri maestri.
Quello che sta insegnando al giovane figlio è un sapere
fatto di piccole cose di tutti i giorni; gesti, sguardi e
ritmi che lo accompagneranno per tutto il resto della sua
vita e che faranno di lui, agli occhi di tutti gli altri,
un membro della tribù. Della sua tribù e di
nessun'altra.
E' quindi la parola socializzata che porta con sé un
sapere che racchiude una pratica di pensiero e contiene un'emozione
di mondo.
Ed è la parola socializzata che partecipando fenomenicamente
(fainomenon, fainomenon, lett. ciò che si mostra),
all'esperienza del mondo, tramite il solo utilizzo della voce,
assume in sé la duplice capacità di intercessione
e proposta, divenendo mediatrice di tutte le culture umane.
In questo senso è possibile affermare che l'ontogenesi
ricapitola la filogenesi.
Il significato della cultura non è la produzione personale
di un individuo isolato dal suo contesto referenziale, ma
nasce all'interno di una comunità che lo pone e lo
riconosce su un terreno comune dove il non verbale e il non
scritto diventano l'oggetto della trasmissione del sapere.
In essa si colloca tutto il nostro voler dire, punto di partenza
e di arrivo per quella Volontà (Wille) che rappresenta
il proprio Essere nel Mondo.
E' l'appartenenza ad una comunità culturale che pone
l'esistenza come soggettività, ossia che fonda l'essere
come "Colui-che-esiste-in-quanto-tale" .
E' grazie ad essa che l'Io si può presentare all'Altro
non più come un oggetto di indagine conoscitiva, ma
come un Tu-soggetto da riconoscere e da cui farsi riconoscere
prima ancora di essere conosciuto.
Questo significa che non è la mente del singolo individuo
che fornisce le certezze di cui disponiamo, ma la relazione
e l'interdipendenza (Gergen K. 1973).
Il fattore "reciprocità" diventa il problema centrale
della dimensione interculturale.
E' attraverso l'uso del linguaggio, inteso nel senso più
ampio del termine, e delle sue regole universalmente riconosciute,
che i soggetti affermano la propria Soggettività.
La privazione linguistica conseguente all'impossibilità
di comunicazione sprofonda inevitabilmente la soggettività
nel ruolo subalterno dell'oggetto, sottoposto alla curiosità,
allo studio, all'interesse, alla cura di altre soggettività.
Tramite la condivisione del prodotto linguistico, invece,
l'Essere afferma se stesso in quanto esistente. E in quanto
esistente assurge immediatamente a detentore di diritto.
Questa sorta di rivoluzione copernicana, operata all'interno
di una prospettiva relazionale, porta l'Altro a perdere la
sua valenza aliena per rivelarsi come una molteplicità
di elementi e di rapporti.
Non è un caso infatti che per il mondo della Grecia
Classica all'essere barbaro, straniero, appartenessero non
solo usi e costumi differenti dai propri, ma anche un particolare
tipo di discorso "incerto, quasi balbuziente, puerile nella
sua struttura".
Un discorso a cui non si poteva accedere perché non
era decodificabile.
E' il bisogno di appartenere a comunità allargate e
di essere riconosciuti come individui dotati di soggettività,
che ha portato tutti gli uomini, a prescindere dalla longitudini
geografiche o dalle epoche storiche, a riunirsi in gruppi
monolinguistici e sovranazionali.
In essi confluisce l'essenza stessa del popolo.
E' il caso della koinh (coiné, agg. lett. comune) classica,
della ricerca cioè di quella forma particolare di greco
capace di contenere in sé tutti gli idiomi in uso nelle
varie regioni elleniche. O dello swahili, la lingua degli
"abitanti della costa" estesa, con flessioni, a tutte le popolazioni
dell'Africa centro-meridionale e divenuta, almeno nell'immaginario,
la lingua simbolo dell'africanità. Ma è anche
il caso dell'inglese, lingua simbolo dell'occidente industrializzato,
adottata, forse anche in virtù di questo, come principale
lingua veicolare del mondo.
"Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è
il dire originario come mostrare" affermava Heidegger.
E il mostrare, nell'ottica interculturale apre la porta a
una reale condivisione di soggetti e di valori.
Il parlare presuppone un ascoltare.
Ascoltare l'altro che parla, ma ascoltare anche se stessi
mentre si parla.
Eppure il linguaggio non si esaurisce né nel parlare,
né, tanto meno, nell'ascoltare.
E' qualcosa che rimanda a un altrove, ma che svela al tempo
stesso uno spazio reale in cui l'azione del simbolico diventa
possibile.
La parola, strumento privilegiato della comunicazione e veicolo
attraverso cui può agirsi l'espressione, rimanda necessariamente
alla presenza dell'altro in quanto esistente.
Per questo la parola riveste un ruolo che è fondamentalmente
sociale.
Privare qualcuno del suo diritto di parola significa privarlo
di questa possibilità, relegandolo in un luogo al di
fuori del tempo e dello spazio in cui ogni messaggio è
privo di senso.
Raccontano le cronache che Federico I, volendo comprendere
quale fosse la lingua originaria del genere umano, predispose
un originale esperimento.
Diede ordine alle balie di corte di allevare un certo numero
di neonati dando loro il nutrimento e le cure necessarie,
ma vietando qualsiasi forma di comunicazione verbale.
Arrivati all'età dell'adolescenza il re li avrebbe
convocati al suo cospetto per interrogarli e dare risposta
in questo modo all'enigma che lo affliggeva.
Come qualche secolo più tardi ebbe modo di valutare
anche Spitz, sebbene in altre circostanze, l'esperimento di
re Federico non portò ad alcun risultato; i bambini,
nonostante le cure, morivano tutti.
Nella società dei consumi e delle telecomunicazioni
accade più o meno la stessa cosa.
L'altro, lo straniero, il diverso, non viene riconosciuto
per il suo essere soggetto di messaggi comunicativi.
Incapace a comunicare diventa, nella migliore delle ipotesi,
notizia, oggetto capace di catalizzare pensieri, azioni di
solidarietà, reazioni di insofferenza.
Privato di uno spazio in cui poter agire la propria appartenenza,
depauperato delle proprie coordinate di riferimento, finisce
con l'apparire voce vuota, a cui non vale la pena prestare
ascolto.
Scriveva Hölderlin che la voce richiede il linguaggio
possedendo però totale libertà nei suoi confronti;
tuttavia privata di un linguaggio che ne sostenga le qualità
significanti la voce non riesce ad affermare le forze del
desiderio che pure la abitano.
Privato di un interlocutore che si ponga ad accogliere il
suo messaggio, lo straniero può semmai ascoltare i
messaggi degli altri, cercando di afferrare non solo il contenuto
linguistico, ma anche quel particolare punto di vista che
lo definisce in negativo attraverso la mancanza di competenze.
E, come accadde per i bambini di re Federico, è destinato
a morire.
Non è un caso quindi che ai servizi territoriali accedano,
in numero sempre maggiore, persone appartenenti a culture
non europee.
Non sempre la loro domanda è esplicita. Spesso dietro
all'ennesimo malessere fisico si cela un altro tipo di malessere.
Il più delle volte è il bisogno di essere ascoltati,
di aprire un luogo in cui dare voce a un discorso che non
può essere espresso altrove.
E per poterlo fare è necessario ricorrere alle sole
strutture che la società occidentale riconosce come
ambiti deputati alla cura.
Alla cura dell'ascolto.
La voce, nella sua funzionalità semantica, oltrepassa
i limiti posti dalla parola significante; abita il silenzio
del corpo come facoltà primaria di simbolizzazione
e, affondando le sue radici nella dimensione dell'inconscio,
sfugge alle comune formule concettuali.
In quanto tale si sessualizza creando quelle strutture arcaiche
che compongono l'immaginario antropologico.
La tendenza alla somatizzazione, propria del paziente straniero,
sarebbe perciò la conseguenza dell'assenza di comunicazione
e dell'isolamento in cui sono costretti coloro che hanno perso
i riferimenti alla propria soggettività.
Nella pratica psicoterapeutica, però le patologie dei
pazienti immigrati tendono ad essere descritte come derivazione
del trauma migratorio o, più semplicemente, vengono
assimilate alle categorizzazioni nosologiche proprie del mondo
occidentale.
Alla cura dell'ascolto, l'unica che implicitamente viene richiesta
dalla maggior parte dei pazienti, si sostituisce la terapia
della tecnica medica, l'unica che lo scienziato occidentale
sembra in grado di offrire.
In questo modo alla domanda di riconoscimento tramite la comunicazione,
non viene data risposta o, tutt'al più, si risponde
negando la possibilità stessa di comunicare.
Il corpo diviene così il mediatore di una comunicazione
che altrimenti non avrebbe luogo.
Un corpo malato, oggettivato dalla presenza stessa del sintomo
e reificato nel suo tentativo di imporsi come soggetto.
Non è così che accade in altre culture dove
la distinzione tra malattie organiche, somatiche o mentali
è del tutto assente.
Così Piero Coppo riferisce di un paziente dell'etnia
dei Dogon (Mali) affetto da "vento": "Il vento colpisce quelli
che hanno la testa leggera, i più deboli. Entra nel
corpo per le narici o gli altri orifizi, o si siede sulla
testa. Fa il corpo caldo e rigido; serra i denti; fa dolere
la testa. Allora uno dice, e fa, cose senza senso. Se non
è curato può uccidere. Non è follia,
ma può diventarlo" (Coppo P., 1996).
La prospettiva epistemologica che pone tutti i fenomeni psichici
all'interno di una determinata cornice di osservazione, non
solo riattribuisce soggettività a ciò che era
oggetto, ma riafferma la contestualizzazione significante
a significati decontestualizzati.
Leggere la patologia del paziente dogon al di fuori del suo
contesto culturale, non solo sarebbe fuorviante rispetto ad
un'ipotetica diagnosi, ma, fatto ancora più grave da
un punto di vista etico e terapeutico, causerebbe un empasse
comunicativo e relazionale in cui medico e paziente rimarrebbero
inesorabilmente schiacciati.
Tobie Nathan sostiene infatti che la cultura vissuta costituisce
nel soggetto una sorta di doppio con il suo psichismo. Nel
caso del paziente occidentale, durante la consultazione clinica,
questo doppio è implicitamente riconosciuto come comune.
Non è così per il paziente straniero.
E' a questo livello che si colloca il ruolo del mediatore
interculturale, il cui compito non è tanto quello di
porsi come una sorta di "traduttore della comunicazione" tra
persone appartenenti a culture differenti, bensì quello
di facilitare questo processo indipendentemente dallo schema
cognitivo a cui ciascuno fa risalire la propria competenza
linguistica.
Si configura così l'idea di comunicazione come processo
inter-attivo e dinamico, capace cioè di innestare una
dimensione relazionale differente nella quale ogni partecipante,
pur partendo da punti di vista differenti, possa condividere
un significato comune.
La reciprocità e la bidirezionalità a cui si
allude, rimandano quindi a uno scenario comunicativo possibile
e reale, nel quale i diversi punti di vista, straniero e autoctono,
possono incontrarsi solo partendo dalla valorizzazione delle
specificità di ognuno.
Per questo l'obiettivo di una relazione in chiave interculturale
risiede nella capacità non di negare la differenziazione,
bensì di promuovere l'annullamento delle differenze
a livello dei significati (Argentieri S., 1995).
Se da un lato, nel tentativo di interpretare la realtà
dell'altro, lo studioso di scienze umane, non può prescindere
dall'analisi dei differenti codici linguistico-culturali,
dall'altro non può cadere nella tentazione semplicistica
di predisporre un apposito "ricettario della multiculturalità"
in cui incasellare e leggere la complessità della relazione.
Strumento privilegiato di questo tipo di mediazione non è
quindi il linguaggio, ma il discorso.
Un discorso però che non si attua nello spazio ristretto
delle rispettive visioni linguistico-culturali, ma che si
esprime solo agendo quello che Sini definisce "abitare la
soglia".
Troppo spesso infatti l'opera di integrazione nella comunità
ospitante, presunto obiettivo a cui ogni immigrato dovrebbe
tendere, si esaurisce nell'appropriazione del linguaggio o
negli strumenti offerti per facilitare questo processo.
E la soglia, ossia quello spazio incontaminato, o di frontiera,
che divide l'Io dal Non Io, finisce con l'esaurirsi in esso.
Eppure la questione non si può risolvere in una prospettiva
meramente linguistica.
Appropriarsi di una lingua-altra è diverso dall'apprendere
un codice meramente linguistico.
Significa costruire un rapporto dinamico tra lingua e cultura.
Significa reinventarsi i propri codici comunicativi attribuendo
alla nuova lingua inflessioni, toni e musicalità, come
nel proprio idioma d'origine.
Significa ricostruire un linguaggio che non è più
né mio né tuo, ma che può finalmente
appartenere a entrambi. Ma significa anche poter leggere e
sapere interpretare le percezioni proprie e dell'altro per
intuirne i punti di contatto.
Significa riconoscere le soggettività all'interno delle
differenze.
Solo in questo modo, abbandonando cioè lo stereotipo
culturale che fa dell'ospitante colui che dà, e dell'ospite
colui che riceve, è possibile realizzare quell'incontro
che è alla base di ogni esperienza di mediazione. In
tutti gli altri casi non si agisce una relazione di autentica
interculturalità, ma un'esperienza, più o meno
riuscita, di tolleranza, dimenticando le parole di Mirabeau
secondo il quale "la tolleranza è un privilegio dei
potenti".
E' questo il senso di "abitare la soglia", dove abitare indica
appunto un perdurare nella condizione di duplice appartenenza,
unica condizione in cui entrambi i poli del Tutto e del Niente
possono fondersi in una dimensione realmente significante.
E' la condizione dell'immigrato-integrato, colui che ha perso
la propria appartenenza etnica per non acquisire mai, nonostante
gli incartamenti burocratici, la nuova condizione di cittadino.
E in questo perdurare tra cielo e terra, nel restare costantemente
sospeso tra due culture, finisce con il possederle entrambe
senza appartenere più a nessuna di esse.
Deacrive bene questa condizione Alvaro Santo angolano residente
in Italia: "fu allora che avevo capito di essere neutro. Avevo
molti schemi in testa. Il mio sangue non era più rosso;
perdeva il suo brillio nero; stava diventando forse blu, forse
giallo". (Santo A. , 2000)
Abitare la soglia contiene in sé, come costante possibilità,
il concetto di attraversamento, ma non si esaurisce, né
si realizza, in esso.
"Attraversare la soglia significa che ciò che era di
là non è più il medesimo dall'altra parte.
Dal di qua al di là qualcosa cambia. Qualcosa cambia
intorno a noi, qualcosa cambia dentro di noi, sicché
attraversare le soglie è continuamente fare esperienza
di noi stessi e del mondo" (Sini, 1993).
Il mediatore della interculturalità agisce questo passaggio,
senza poterlo mai realizzare in modo definitivo. Non oltrepassa
la soglia, ma la abita costantemente.
In questo suo essere in bilico continua ad essere se stesso
senza mai smettere di diventare altro.
Afferma necessariamente la propria cultura assumendo quella
dell'altro.
Poco importa allora, se il mediatore della comunicazione interculturale
sia autoctono o straniero.
La differenza si imporrebbe solo nella misura in cui la soglia
da varcare fosse, a senso unico, quella predisposta dalla
comunità ospitante.
In questa logica è chi arriva che deve compiere il
salto; è chi arriva che deve entrare, in un modo o
nell'altro; è chi arriva che deve darsi da fare per
ridurre, nel più breve tempo possibile, quello spazio
che ribadisce la sua condizione di straniero.
Meglio se ad accompagnarlo è un connazionale.
Chi è già al di qua della soglia può
capire, accogliere, oppure può sentirsi minacciato
o invaso. In ogni caso non deve oltrepassare nessun confine
per affermare se stesso e il proprio essere soggetto.
L'obiettivo della relazione interculturale risiede perciò
nella capacità di sostituire rappresentazioni intersoggettive
alle consuete rappresentazioni intrasoggettive, ossia ridefinire,
anche a livello cognitivo, sé e l'altro per far scaturire
un'impostazione creola della relazione, dove la potenza interlinguistica
risieda nella possibilità di parlare di oggetti presenti
e nella concretezza delle definizioni .
Ogni rapporto interattivo, infatti è caratterizzato
da una serie di stimoli reciproci posti in sequenza, che concorrono
a suscitare mutamenti nello stile relazionale di due o più
individui, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica
o culturale.
"Adottare la relazione come teoria significa prendere teoricamente
una posizione oltre lo stimolo esterno e lo stimolo interno,
e non contro, per adottare a spiegazione del comportamento
umano il concetto di relazione come interazione" (Minolli
M., 1993).
Se dunque il linguaggio, in quanto oggetto della comunicazione,
è lo strumento della relazione, è solo in quest'ultima
che si fonda la possibilità di costruire un dialogo
comunicativo.
La condizione di esistenza per gli oggetti del mondo reale,
a partire da quelli di natura fisica, per arrivare a quelli
di maggiore complessità concettuale, è strettamente
correlata alla possibilità di essere descritti.
Per compiere questo processo però è necessario
passare attraverso una dolorosa sperimentazione di riduzione
fenomenologica (˘epoch, epoché lett. sospensione, dubbio),
ossia compiere quell'operazione che riduce l'Essere a Fenomeno
d'essere e la soggettività a coscienza pura.
Affinché questo passaggio sia possibile, l'antropologo,
l'etnologo o comunque lo studioso di Geistwissenschaften deve
riuscire a mettere tra parentesi se stesso e la propria cultura,
riducendo la propria soggettività alla sola necessità
del Cogito cartesiano e rifiutandosi di assumere il mondo
come qualcosa di già dato e immutabile.
E' solo tramite questo processo di annullamento che si apre
la possibilità di cogliere l'Essere storicamente determinato,
per poter definire discorsivamente se stessi tramite l'annichilimento
e la contemporanea riaffermazione di sé.
Vi è un movimento da compiere nella scena dell'intervento
interculturale: un'assunzione di responsabilità nei
confronti della propria esistenza in quanto evento relazionale
e in quanto fatto storico.
Si tratta cioè di assumere la responsabilità
di "essere-nel-mondo" in quanto intersoggettività.
"Prendersi cura dell'altro", nell'ottica della mediazione
interculturale, non significa intervenire su una persona oggettivamente
in difficoltà (lo straniero) per restituirgli una sorta
di accettabilità sociale, ma condividere lo strumento
comunicativo per dargli significatività discorsiva.
Il cambiamento prodotto da una relazione impostata a livello
interculturale, presuppone necessariamente il mantenimento
dell'Essere.
Non è l'Essere dell'Altro, il Sosein, che cambia, bensì
il canale comunicativo e lo stile relazionale adottato.
Il linguaggio incomprensibile, fino a che centrato su regole
e costrutti differenti a livello fonetico, sintattico e grammaticale,
diventa linguaggio capace di produrre relazione nel momento
in cui si dà la possibilità di condividere esperienze
significative.
La capacità di comunicare diventa, in questo modo,
una possibilità di apertura al mondo e un'occasione
per posizionare se stessi in senso discorsivo riconoscendo
e costruendo un sistema relazionale in cui ognuno può
riconoscere il proprio mondo, i propri affetti, le proprie
emozioni e il proprio senso di realtà.
Accade invece che, soprattutto nei confronti di persone non
appartenenti alla comunità ospitante, si adotti una
sorta di razzismo comunicativo, giocato, come fece notare
il sociolinguista Massimo Vedovelli, nell'utilizzo di un linguaggio
semplificato e finalizzato al perdurare di una relazione di
distacco con l'altro.
Affermare costantemente il proprio Essere negando l'Essere
Altro, ribadendo la separatezza e la differenza, favorisce
l'insorgere di comunicazioni asimmetriche, in cui la relazione
finisce con l'esistere solo nell'illusione di chi, dall'alto
del suo potere, crede di poter gestire l'incontro.
Difficilmente in questo modo è possibile assurgere
a quel grado di comprensione sufficiente per poter tentare
di costruire un contatto relazionale.
Diceva Watzlawick che "un fenomeno resta inspiegabile finché
il campo di osservazione non è abbastanza ampio da
includere il contesto in cui il fenomeno si verifica".
La definizione di uno spazio relazionale capace di contenere
la complessa dinamica della comunicazione diventa perciò
un altro degli obiettivi indispensabili per accedere alla
mediazione dell'interculturalità.
Uno spazio, però, che per poter agire nel pieno delle
sue potenzialità, deve riuscire a conciliare la semplicità
di definizione con la completezza delle funzioni.
In esso gli agenti del discorso devono potersi sentire adeguatamente
rappresentati, non occupando quelle posizioni gerarchicamente
impostate che sposterebbero tutta la comunicazione in una
dimensione perlocutoria.
Ma allo stesso tempo il sistema deve essere in grado di racchiudere
la natura dei messaggi inviati, siano essi di carattere verbale
o analogico, per comprenderli, prima di tutto, e per restituirli
decodificati e interpretati ai referenti della comunicazione.
A buon motivo il mediatore della comunicazione interculturale
è stato definito "al kantara", termine arabo che indica
un ponte sospeso tra due rive.
E' nello spazio sospeso, idealmente racchiuso tra le sponde,
ma simbolicamente proteso all'infinito, che si costruisce
il luogo del possibile; un luogo in cui cose che apparivano
bizzarre, perchè prive di senso, iniziano a strutturarsi
semanticamente fino ad occupare la dimensione della normalità
data dalla consuetudine e dalla conoscenza.
Per questo l'incontro con altre culture nel momento stesso
in cui offre l'opportunità di estendere i confini della
propria identità personale e sociale, risulta profondamente
disorientante.
In quell'attimo è in gioco non solo ciò che
noi facciamo agli altri, ma anche ciò che noi facciamo
di noi stessi (Mantovani, 1998).
Ciò significa riconoscere ed assumere a livello di
coscienza, il carico di tensione che un incontro di questo
tipo è in grado di produrre.
Da una parte ci sono i sogni, le speranze, le aspettative.
Dall'altra le difese, la paura, l'ignoto. Che si propenda
per una parte o per l'altra, oppure che si cerchi di impostare
una relazione di sintesi, in ogni caso diventa assolutamente
necessario avviare un processo di riorganizzazione di sé,
orientato alla ridefinizione dei confini della propria identità.
L'antropologo sperimenta in prima persona, ad ogni incontro
etnografico, la propria "crisi" di fronte all'Altro, una crisi
che è, al tempo stesso, etica, cognitiva ed esistenziale.
E' attraverso la sua affermazione, e conseguentemente il suo
superamento, che l'antropologo fonda il proprio lavoro, inteso,
secondo l'ancora attuale lezione di De Martino, come la ricostruzione
razionale di identità inaccessibili.
Interculturazione indica quindi l'acquisizione di un nuovo
codice valoriale, senza l'implicazione della perdita di quello
precedente. Scriveva infatti nel XII secolo, Ugo da San Vittore:
"L'uomo che trova dolce la sua patria non è che un
tenero principiante, colui per il quale ogni terra è
come la propria è già un uomo forte; ma solo
è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è
che un paese straniero".
Tratto dal volume "Psicologia
sociale e intercultura" a cura di Romina Coin, edito
da Libreria Cortina Milano
|