IL
LINGUAGGIO COME PRODUTTORE DI CAMBIAMENTO
di
Francesca Zannoni - Psicopedagogista
Due persone che parlano attivano
uno scambio interattivo capace di innestare una nuova dimensione
relazionale.
Parleremo perciò di posizione del parlante, o posizionamento
discorsivo del parlante, e di convenzioni narrative.
La posizione del parlante sta a indicare la posizione che
gli attori del discorso occupano all'interno della pratica
discorsiva. Ciò ha a che vedere con le regole etiche,
morali, le convenzioni sociali e le azioni formali da cui
derivano i comportamenti e gli atti linguistici.
Le convenzioni narrative invece, indicano le modalità
narrative attraverso cui, nella cultura di appartenenza, vengono
narrate le storie.
Nell'ottica discorsiva, infatti, il linguaggio utilizzato
dai singoli soggetti all'interno delle varie unità
relazionali non si limita unicamente a descrivere o a raccontare
il mondo, esso realizza azioni sociali dotate di significato
e dirette a scopi. Affinché ciò divenga possibile
gli attori sociali devono essere in grado di condividere le
proprie abilità relative dei sistemi di simboli, dei
segni intenzionali e delle norme convenzionali.
Tali vincoli normativi, come suggerisce Goffman (1967), non
determinano l'azione o l'atto linguistico in senso causale,
ma lo rendono più o meno appropriato, attraverso pratiche
giustificatorie all'interno della cornice normativa di riferimento.
Quando si emette un enunciato, quindi, si produce un atto
linguistico.
Un enunciato è prima di tutto un'azione, cioè
è intenzionale e intenzionato da qualcosa.
Diventa atto linguistico quando viene adottato da coloro ai
quali è rivolto.
Infine, ogni atto linguistico in quanto tale contiene una
forza illocutoria, ossia un potere sociale strettamente correlato
al contesto ambientale e relazionale. Ciò significa
che la frase è costruita intenzionalmente e che l'emittente
intende suscitare un cambiamento nel pensiero dell'altro.
Le parole prese in se stesse possono anche non significare
nulla, ma, inserite in un certo schema interazionale, possono
di volta in volta assumere significati di promessa, minaccia,
rimprovero, seduzione e così via.
Oltre a ciò dobbiamo considerare l'effetto perlocutorio
delle parole: cosa accade quando vengono utilizzate da altri
come atto linguistico.
Una particolare espressione verbale, una specifica prosodia,
o ancora un ritmo più o meno cadenzato è in
grado di produrre atti linguistici differenti.
Gli effetti perlocutori si verificano solo a causa del fatto
che si pensa che un enunciato possieda una determinata forza
illocutoria.
Gli aspetti illocutori, e di conseguenza perlocutori, della
comunicazione possono essere ricavati con estrema facilità
dalla vita quotidiana; i messaggi pubblicitari, i comizi elettorali,
ma più semplicemente la relazione tra soggetti che
rivestono ruoli gerarchicamente differenti, sono chiari esempi
delle capacità del linguaggio-comunicazionale di produrre
un cambiamento.
Chi fa del linguaggio lo strumento privilegiato della tecnica
curativa non può quindi sottovalutare le ripercussioni
consce o inconsce della pratica comunicativa.
Tra le scienze umane, quelle di derivazione psicologica si
pongono come luogo in cui le persone producono conoscenze
e agiscono intenzionalmente, magari "per suscitare il cambiamento",
avendo come interlocutori attivi altre persone. Le unità
di analisi selezionate in questo particolare tipo di relazione,
quali ad esempio il linguaggio, l'azione, il contesto, e così
via, costituiscono riflessivamente gli strumenti per intervenire
e per analizzare, ossia i "luoghi simbolici interattivi
all'interno dei quali tutto ciò viene realizzato"
(Pagliaro, Dighera, 1994).
Quindi la comunicazione, proprio per il fatto di essere relazionale,
suscita e produce un cambiamento.
"Adottare la relazione come
teoria (...) significa prendere una posizione teoricamente
oltre lo stimolo esterno e lo stimolo interno, e non contro,
per adottare a spiegazione del comportamento umano il concetto
di relazione come interazione" (Minolli).
Se dunque è la relazione
che permette di impostare la pratica terapeutica, il linguaggio,
in quanto oggetto e strumento della relazione, è ciò
che permette di realizzare il cambiamento. Quest'ultimo però
non si attua se non attraverso la dolorosa sperimentazione
dell'annullamento di sé e la sua conseguente riappropriazione.
E' mediante questo percorso che il soggetto può riuscire
ad appropriarsi del proprio essere storicamente determinato,
per definirsi discorsivamente tramite l'annichilimento e la
contemporanea riaffermazione di sé.
In questa prospettiva "Curare" non contiene in sé la
trasformazione dell'altro, come se fosse una trasmutazione
alchemica; "Curare" non significa nemmeno intervenire su un
corpo malato per restituirgli una sorta di accettabilità
sociale, significa invece "Prendersi cura" dell'altro da un
punto di vista relazionale, condividendo, (nel senso di "Dividere
con") lo strumento linguistico adottato per dargli significatività
discorsiva.
Diventa allora facilmente comprensibile perché il cambiamento
contenga in se stesso anche il mantenimento dell'Essere.
Non è l'Essere, il Sosein, che cambia, ma è
il canale comunicativo, lo stile relazionale, che viene modificato
nella pratica terapeutica.
Il linguaggio incomprensibile, perché centrato su uno
schema patologico, diventa un linguaggio capace di produrre
relazione, capace cioè di essere condiviso e di condividere
esperienze significative.
La capacità di comunicare con gli altri diventa una
possibilità di apertura al mondo, e in questo risiede
la sua efficacia terapeutica.
Se ciò che è patologico non è da ricercare
in un corpo o in un'anima malati, ma nella loro impossibilità
a costruire relazioni discorsive soddisfacenti, allora è
inevitabile che, solo partendo da una rivalutazione dell'uso
linguistico, sia possibile ricostruire le coordinate dialogiche
necessarie a una riaffermazione della propria azione sul mondo.
Per questo motivo "parlare con l'Altro vuol dire incontrarlo
attraverso le rappresentazioni e gli schemi di senso comune,
con i loro discorsivi, con le loro figure narrative, gli artefatti
emotivi e le loro reificazioni linguistiche" (Salvini,
1995).
Allo stesso modo nella pratica terapeutica, ascoltare le storie
del paziente, interagendo relazionalmente con esso, significa
tradurre il suo linguaggio in un linguaggio non radicalmente
diverso, ma congruo e complementare a quello dell'interlocutore.
Il linguaggio del paziente, sia esso di natura verbale, extraverbale
o analogica, non sarà più una voce incomprensibile
tra le tante, frutto di una "mente isolata", ma si avvierà
ad essere una voce narrante, capace di costruire un panorama
relazionale comprendente altri Sé a loro volta discorsivamente
operanti. Da un punto di vista clinico questo significa sostituire
il delirio con il racconto, il monologo autistico ( monos-logos),
verbale o non verbale, con il dialogo (dia-logos).
Posizionare se stessi in senso discorsivo significa perciò
riconoscersi riflessivamente in quanto attori che partecipano
a un discorso particolare rispetto a un sistema normativo
di riferimento, nel quale azioni e atti linguistici siano
interattivamente appropriati al contesto.
Costruire una relazione dialogica equivale a costruire un
sistema nel quale i soggetti interagenti possano riconoscere
e ricostruire il modo in cui entrambi riconoscono e ricostruiscono
il proprio mondo, i propri affetti, le proprie emozioni, il
proprio senso di realtà.
Cogliere le unità del discorso nelle loro funzioni,
attraverso la decodifica dei messaggi verbali e non verbali
(pause, intonazioni, postura, ecc...), intesi come un modo
di agire atto a produrre effetti che veicolano significati
specifici, non solo uno strumento di comprensione, ma un'occasione,
clinicamente indispensabile, per costruire col paziente un
dialogo capace di posizionare entrambi all'interno di un agire
discorsivo.
"Costruire momenti e spazi
di confronto tra le persone, i loro discorsi posizionati,
le storie che vengono prodotte, consente a tutti i personaggi,
terapeuta compreso, di aumentare e ampliare i livelli di consapevolezza
condivisa rispetto alle ispezioni discorsive o alle azioni
non ancora variate, o variate secondo diverse prospettive"
(Paguro, Dighera, 1994).
Tali variazioni, nei loro "moti"
o nella loro apparente e irriducibile diversità, possono
diventare il luogo in cui si può agire il disagio,
così come i silenzi, le locuzioni ripetitive o stereotipate,
i fonemi incongruenti, possono diventare un mezzo per padroneggiare
la realtà e condividerla con l'altro.
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