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Il linguaggio e l'autocoscenza

di Francesca Zannoni - psicopedagogista

 

Proviamo a considerare i mezzi linguistici che una persona utilizza nella pratica discorsiva per presentare se stesso come persona unica.
Sappiamo che per avere un senso della propria individualità è necessario sapere di possedere un adeguato sistema di locazione, sia da un punto di vista spaziale, sia da un punto di vista temporale.
Io posso pensare di esistere perché mi percepisco come corpo che si muove ed occupa una particolare posizione nello spazio fisico esterno a me.
Guardando con i propri occhi e ascoltando con le proprie orecchie è possibile fissare la propria attenzione su sensazioni fisiche e tattili di cui si diviene improvvisamente coscienti.
Si scopre così di appartenere a un corpo che, a sua volta, è al centro di un sistema di corpi materiali.
Ma si può anche avere coscienza di sé come appartenenti al corpo materiale. Si può cioè divenire coscienti del fatto che quello che si percepisce si struttura attorno a un centro denominabile Io (Husserl, 1931).
Ugualmente la percezione di esistenza dipende dall'individuazione di un senso di esistere, in un dato momento, in un dipanarsi temporale, come una traiettoria o un percorso attraverso il tempo.
Il "mio senso di sé", della mia individualità, è in parte il mio senso di sperimentare il mondo da unica locazione unica nello spazio: la locazione del mio corpo. Ma è anche il mio senso di agire sul mondo in questo posto, cioè in relazione ad altri soggetti che, a loro volta interagiscono con me.
Il mio esistere si muove dunque attraverso un reticolato complesso, formato dagli assi di tempo e da quelli di spazio.
La mancanza di uno solo dei due offrirebbe, di riflesso, un'immagine inadeguata e insufficiente del mio essere esistenziale.
Il senso di sé, come scrisse il filosofo J. Locke, comprende anche la nozione di "biografia personale".
Ovviamente avere un senso della propria storia significa possedere preliminarmente anche il senso della propria identità, ma appartiene indissolubilmente al senso di sé la percezione di essere temporalmente definiti in un istante di tempo derivante da un passato e tendente ad un futuro.
Da un punto di vista antropologico, però il senso di identità appartiene anche ad altri domini; nelle culture influenzate dal sistema etico giudaico-cristiano il senso della propria identità è strettamente collegato al concetto di responsabilità.
Mi percepisco, e mi riconosco, come identità in quanto so di essere un soggetto agente.
Le discussioni filosofiche e teologiche sul libero arbitrio e sulla determinazione divina della volontà umana, non avrebbero senso all'esterno di questo modo di intendere l'identità.
La loro riflessione infatti, poteva avere luogo solo partendo dal presupposto di un soggetto conoscente in quanto riflettente, o, più precisamente, in quanto autoriflettente.
Se l'azione diventa lo strumento che permette di cogliere questa sorta di coscienza autoriflessa è perché nell'azione è racchiusa tanto una dimensione corporea del soggetto, quanto una sua più precisa collocazione etico-morale.
Corpo e mente, materia e spirito.
Dalla loro fusione è possibile percepire il senso della propria identità, in quanto corpo che è nel mondo (Dasein) e in quanto corpo che è agente sul mondo (Sosein).
Il corpo è, per dirla con Merleau-Ponty, essenzialmente un corpo fenomenico, un oggetto di esistenza e di esperienza, uno strumento di dialogo con il mondo.
Essere è "Essere corpo" prima ancora di "Avere corpo".
Questo mio essere mi pone all'interno di una rete di obblighi e impegni reciproci nei confronti di altri soggetti agenti; mi fornisce una locazione, non più soltanto di natura spazio-temporale, ma anche sociale, ed è tramite e attraverso essa che vengo definito e mi autodefinisco. In questo modo avere senso di sé non significa solo sperimentarsi come entità, ma anche come avente un posto da cui percepire e agire, essere agito ed essere percepito.
Il linguaggio fornisce a questo proposito uno strumento molto importante nell'individuazione dell'immagine che ogni soggetto percepiente ha di se stesso.
Nella pratica clinica basata essenzialmente sulla produzione linguistica, un'attenzione particolare rivolta al modo in cui il paziente dice di sé, al di là di cosa dice, potrebbe offrire uno strumento di decodifica dei contenuti semantici, estremamente ricco e significativo.
Se una parte importante di questo compito è svolta dal linguaggio non verbale, o analogico, un'altra altrettanto fondamentale è fornita da quello verbale.
L'utilizzo dei pronomi personali, ad esempio, permette di indagare sulla produzione discorsiva del Sé, e sull'immagine inconscia che il soggetto parlante ha della propria identità.
I posizionamenti discorsivi adottati localmente impegnano dunque le persone sul piano dei processi di significazione, e quindi, delle convenzioni normative attraverso cui segni e simboli vengono utilizzati per agire.
L'auto-locazione è un processo del quale la persona è protagonista attiva in quanto viene adottata e mantenuta situazionalmente aderendo a convenzioni e criteri di senso (Pagliaro, Dighera, 1994).
Molto semplicemente ci basti pensare al fatto che, nelle patologie molto gravi, dove l'identità è frammentata e il soggetto non riesce a percepirsi "come soggetto", il segno più evidente di patologia, al solo livello dell'analisi formale, ci appare già nella produzione linguistica, con l'utilizzo, per "dire di sé", della terza persona singolare.
Un bambino, che aveva difficoltà nel definire se stesso come unità differenziata dal corpo materno, e che non riusciva a impostare con il mondo circostante relazioni gratificanti e soddisfacenti, riferendosi a se stesso, ricorreva all'utilizzo della terza persona singolare ("Mario vuole bene", "Mario non vuole la minestra" e così via).
In questo modo, aiutare quel bambino a riappropriarsi della propria Denominazione, riconoscendo il suo Sé Corporeo nei suoi limiti e nelle sue potenzialità, significava, da un punto di vista linguistico, favorire il passaggio dall'indifferenziato pronome di terza persona, al più compromettente, dal punto di vista della soggettualità, pronome di prima persona.
La scelta teoretica di fondo, a un tempo teorica e metodologica, non è perciò orientata sul solo versante rieducativo, concernente una serie di pratiche finalizzate all'adozione, da parte del soggetto, del pronome linguisticamente corretto, ma sulla ricostruzione di un contesto relazionale significativo, all'interno del quale sperimentare e recuperare quella parte di Sé rimasta imbrigliata nell'indifferenziato e nell'impersonale.
L'uso del pronome diventa quindi una componente essenziale del senso di sé, in quanto è tramite esso che il soggetto si autodefinisce e si presenta al mondo come Persona.
L'identità personale traduce il senso di qualcuno di essere locato spazialmente e temporalmente, di avere una posizione etica e morale all'interno del gruppo di appartenenza, di essere, grazie a questi attributi, in relazione con altri Sé dotati di caratteristiche similari.
Questo realizza, da un punto di vista psicologico, quello che Fichte sosteneva da un punto di vista filosofico; l'Io, per percepirsi come soggetto, deve riconoscere l'esistenza di altri Io, diversi da sé, ma in tutto simili a sé, i Non-Io, con i quali instaurare un rapporto interattivo.
E' solo riconoscendosi come sostanza dotata di accidenti del tutto particolari, capace cioè, in quanto definita spazio-temporalmente, di entrare in contatto con altri Io e di interagire con loro, che l'Io può definire se stesso e, definendosi, contribuire a riconoscersi.
Il punto è quindi che l'Io è prodotto discorsivamente per sé e per altri attraverso l'uso del pronome di prima persona; esso riflette, e in parte concorre a generare, il senso che ciascuno ha della sua identità.
La coscienza riflessa, come leggiamo in Minolli (1995), che qui viene a prodursi, si prospetta in modo assai similare al concetto neurofisiologico di "capacità intellettiva". Il dato interessante è la capacità del soggetto a cogliersi riflessivamente, ossia di percepire se stesso nell'atto stesso di percepire. In un certo senso questo processo riprende con un'ottica psicologica, il sensismo settecentesco di Condillac, noto con la famosa teoria della mano che tocca se stessa. Nel suo saggio del 1746 afferma, in opposizione a Locke che, lo ricordiamo aveva posto a fonte della conoscenza sia la sensazione che la riflessione, che alla base della conoscenza umana risiede unicamente la sensazione.

"Locke si contenta di riconoscere che l'anima percepisce, pensa, dubita, crede, ragiona, conosce, vuole, riflette, e che noi siamo convinti dell'esistenza di tali operazioni perché le troviamo in noi stessi ed esse contribuiscono al progresso delle nostre conoscenze; ma egli non ha sentito la necessità di scoprire il principio e la genesi di tutte queste operazioni " (Condillac E., 1754).

In realtà, secondo l'abate Condillac la nostra conoscenza non è solo frutto di sensazioni; in quanto esseri umani la nostra conoscenza è posta riflessivamente dalla sensazione di percepire le sensazioni. Se una statua avesse ad un certo punto della sua esistenza materiale la possibilità di sentire sensibilmente qualcosa, allora, tramite questa facoltà, riuscirebbe a strutturare un primo abbozzo di pensiero cosciente.
La coscienza riflessa è quindi la base della conoscenza umana; è sapere di sapere.
Dal punto di vista linguistico diventa estremamente chiara l'importanza del momento in cui il bambino, volendo parlare di se stesso usa il pronome personale "IO": "è questo il primo contenuto di identità, quello di esprimere la componente riflessiva che il soggetto sviluppa su di sé e di cui la grammatica è espressione e codificazione" (Minolli, 1995).
Dietro al pronome personale di prima persona si apre così un intero mondo di significati, tanto più vasto quanto più il soggetto, permettendosi di cogliersi riflessivamente, riesce a percepire se stesso come soggetto a un tempo percepito e percepiente.
Solo partendo da questo presupposto di natura gnoseologica il bambino può avviarsi alla strutturazione e al riconoscimento della propria identità e, di conseguenza iniziare ad apprendere. Quando il soggetto non è in grado di individuare se stesso all'interno di un insieme di oggetti, quando cioè non discrimina tra ciò che è sé e ciò che è altro da sé, ma perpetua l'indifferenziato, allora non solo risulterà inibita la definizione della propria identità, ma l'intero processo conoscitivo apparirà fortemente compromesso.
Da un punto di vista evolutivo l'apprendere il mondo esterno si colloca in un secondo momento rispetto all'apprendere legato al proprio sé.
Per il bambino molto piccolo il mondo è costituito principalmente dal proprio corpo, fatto di materia e di bisogni. Questo corpo, essenzialmente fisico sembra però non appartenergli in modo consapevole. Se si guarda allo specchio non riconosce la propria immagine.
In questo periodo funziona mediante la "coscienza diretta".
Affermare che dall'uso linguistico è possibile cogliere il momento cognitivo in cui si colloca il soggetto, significa quindi leggere, al di là dell'espressione linguistica utilizzata, i contenuti semantici per percepirne i significati inconsci e decodificare, attraverso l'adesione a un modello relazionale, il sistema di segni utilizzato.

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Specialisti disturbi dell'apprendimento Vimodrone (Mi)

 

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